TEST


Liberati. Ma liberi?

Secondo me dovremmo tutti festeggiare il 25 aprile. Dovrebbe essere una festa per tutti gli italiani, quei pochi che restano e quei molti che lo diventeranno. Dovremmo raccontare per bene ai nostri ragazzi il 25 aprile. Per bene vuol dire una cosa impossibile in Italia: senza passione e con onestà intellettuale. Dovremmo raccontare per bene il 25 aprile come il 4 novembre; e secondo me anche il 7 – 10 marzo dell’ottocentoventuno, la battaglia di Antrodoco, che principiò il risorgimento. Ma il risorgimento ormai l’abbiamo cucinato sull’antiaderente e non sfrigola né crepita più. Uno lo può anche stare a sentire come una cosa curiosa, tanto in là nel tempo da domandarsi se sia tutto proprio così. E’ un po’ come con i numeri: sei milioni? Venti milioni e rotti? Più passa il tempo e più diminuiscono; i morti, intendo. Invece il 25 aprile è una data che sta sulla graticola e s’attacca; e più uno cerca di prendere le misure, più quella crepita, s’incricca, s’incolla e si sbrindella. E più ci si allontana.

Foto ANPI Ravenna

Questo è il 25 aprile: la festa della lontananza in cagnesco. Una delle più brutte feste che ci siano in Italia, tanto dovrebbe essere bella. Dovremmo essere contenti di essere stati liberati; dovremmo essere riconoscenti ai resistenti, quelli veri, quelli che la resistenza l’hanno fatta veramente, uomini di sinistra, di destra, di centro, cattolici e non cattolici. I resistenti veri, non quelli fuori tempo che ogni anno si sgolano con bella ciao, che fra l’altro nessuno dei resistenti veri cantò mai. Ecco, questi mi piacciono di meno, perché la resistenza fu quella, non questa; ora non c’è nulla a cui resistere, mentre ci sarebbe invece molto al quale reagire. Di là sarebbe ora di smetterla di sentirsi traditi: traditi da cosa, da chi. Il fascismo, come il socialismo reale o qualsiasi altra forma di regime, è stato un disastro completo da qualsiasi parte uno s’intestardisca a volerlo vedere: quando la persona viene offesa, ogni movimento è un oltraggio, un assassinio e un fallimento. Questo vale per mancina, per destra, per nord, per sud. Liberi dal nazifascismo. A chi ha certe nostalgie, ricorderei che difficilmente avrebbe fatto la vita che ha fatto se il nazifascismo non fosse stato fermato. La resistenza ha fatto i suoi errori? Certo; certo che ne ha fatti. Quand’ero bambino, alcune anziane raccontavano con terrore le scorrerie di alcuni resistenti: le ruberie, le giustizie sommarie, l’arroganza. Ma di ladri, ingiusti e arroganti ve n’è in ogni posto, o abbiamo gli occhi per guardare solo quello che vogliamo?

Foto: giovanigenitori.it

Io non ci sarei voluto stare sotto un regime in cui la persona vale zero e per questo sono grato ai resistenti. E sono grato anche ai cosiddetti alleati, anche se non al programma degli alleati. Sono grato a quei soldati che sono venuti a morire qui, perché l’Italia fosse liberata, non sono grato a quello che è venuto dopo. Io avrei voluto essere libero e non solo liberato. E’ questo il punto: che me ne faccio di essere liberato, se poi devo essere libero con la condizionale. A questo si deve reagire, non resistere. Ogni anno, invece, la solita storia: la Costituzione italiana è figlia della resistenza. La nostra Costituzione votata, rigida, lunga e laica si basa sulla resistenza. Ma mica è del tutto esatto: la Costituzione viene da più lontano, viene da Mazzini. La resistenza la fa presente e ricorda che la libertà non è mai gratuita. E siccome non è gratuita, io voglio reagire: all’ipocrisia dei dittatori democratici, prima di tutto, e poi alla violenza dei sistemi bancari. Sia l’una che l’altra annullano la persona e quindi non si deve resistere, ma reagire; altro che bandiere vessilli e belle da salutare. Qui è in gioco la libertà del singolo, che è la libertà più importante di tutte, senza la quale l’intera impalcatura frana e si diventa veluti pecora, si perde la dignità e il pensiero, la capacità di essere, i nostri ragazzi diventano sempre più analfabeti e quindi stupidi, e noi sempre più servi. Perché mica è vero che quella guerra finì; continuò. E per continuare aveva necessità che fossimo liberati, ma liberi assolutamente no. Assolutamente no.

Laudato NO

Con l’avvento di Bergoglio, che si è dato il nome di “Francesco”, il Poverello d’Assisi viene più che mai tirato a sproposito per il saio.

In particolare, l’attuale “papa”, con la sua enciclica LAUDATO SI’,  mutuandone il titolo dal testo del “Cantico delle Creature”, ha ingaggiato San Francesco per conformarsi a quella visione politica “green” che si vuole imporre a livello globale, tanto da arrivare a vagheggiare il “peccato ecologico”, alla luce del nuovo precetto (estraneo al novero dei 613 enunciati nella Bibbia) della “cura del Creato”, quasi un idolo da venerare, e tanto da eleggere il “Pianeta” personificato e la sua “salvezza” come fine terreno, oscurando la salvezza dell’anima ed il fine ultraterreno della vita che costituiscono i cardini del Cristianesimo.

Tutto questo preambolo per arrivare a dire che, salendo al Colle dei Cappuccini, ed accostandosi a quella che viene denominata “Oasi di San Francesco” e “Casa di Accoglienza”, e quindi in ambito “francescano” nella sua accezione attuale, ci si aspetti di assurgere ad una dimensione di piena armonia tra Cielo e Terra. Nemmeno per idea.

La scena a cui si assiste accedendo al piazzale antistante la Chiesa conventuale di San Francesco al Monte (Parrocchia del Buon Pastore, Diocesi di Foligno) è deprimente: incuria, sporcizia, dissesto, alberi secchi, lampioni rotti, una fontanella che, sotto la scritta di lode francescana dell’acqua, non la eroga, pavimentazione disastrata, blocchetti di porfido in libertà, contenitori stracolmi, rifiuti sparsi in ogni dove. Altro che cura!

Voglio presumere che, all’interno dell’area privata, la cosiddetta “Oasi” e la cosiddetta “Accoglienza” siano invece propriamente tali. Certo è che l’area aperta al pubblico è ben lungi da evocarle ed anzi costituisce un biglietto da visita al contrario per chi vi fosse diretto.

In questa condizione contraddittoria e ben poco edificante, viene spontaneo scuotere la testa e pensare che qui, meglio del LAUDATO SI’, sia più consono il… LAUDATO NO.


Monnezza al Telefono

Difficile decidere dove mettere l’accento nel leggere l’immagine che fa da pretesto a questo articolo, se sulla TIM o sulla monnezza.

A proposito della prima, la TIM, alias di Telecom Italia, già SIP, che naviga sempre più in cattive acque, così ha sinteticamente ma efficacemente riassunto la situazione, il 9 marzo scorso, la testata Milano Finanza:

“Il crollo in borsa del titolo? L’epilogo di una storia iniziata con l’OPA del secolo, alla fine del febbraio 1999, condotta da Roberto Colaninno, operazione che aprì la strada alla crescita a dismisura del debito per abbattere il quale la cessione della rete è rimasta l’ultima spiaggia”.

La seconda, la monnezza, è un male che affligge Foligno da quando la VUS, di cui il Comune è al tempo stesso cliente ed azionista, ovvero vittima e colpevole, non è più in grado di garantire un servizio di raccolta dei rifiuti degno di questo nome e di un Paese civile.

Può essere che le difficoltà in cui versa la TIM e quelle a cui non pare in grado di far fronte la VUS, sia pure di genere ed entità diverse, convergano emblematicamente.

Accade quando, come nella foto, per intervenire su un armadio a cui sono attestate le terminazioni delle linee telefoniche della via, il tecnico TIM di turno, che già patisce, specie economicamente, per la situazione ed il clima aziendali, per svolgere il suo lavoro debba pure farsi largo ed operare tra la monnezza nauseabonda che si accumula regolarmente a ridosso e nei dintorni dell’impianto.

Idem dicasi, di riflesso, per la monnezza che, come se non fosse già dilagante, arriva al punto da costituire una turbativa per gli interventi di manutenzione o di riparazione sulla rete telefonica, ovvero per un servizio di pubblico interesse.

Comunque la si veda, al peggio non c’è limite.

 

Pesci in Barili sulla Ciclovia

Il 19 luglio 2020, inviai una PEC al Comune di Foligno, al Comune di Gualdo Tadino ed alla Regione Umbria, suggerendo una soluzione per realizzare una variante ciclabile alternativa al tragitto obbligato sulla SS 3 Flaminia, tra gli svincoli Profiamma Nord e Pontecentesimo, ove poi nel 2022 ANAS avrebbe istituito il divieto di circolazione ai velocipedi.

Venni consultato dall’assessore comunale allo sport, Decio Barili, che valutò questa mia come la soluzione preferibile, rispetto anche alle altre due da me sottoposte, una già presa in considerazione in passato dal Comune di Foligno ma non praticabile perché insisteva quasi interamente su proprietà private.

Che fine avrà fatto quella ipotesi da me suggerita quattro anni fa e condivisa dall’assessore Barili? Che fine ha fatto il Progetto di Ciclovia Foligno – Fossato di Vico, che insiste sullo stesso tragitto, annunciato in pompa magna nel 2020 e di cui non si è saputo più nulla?

Sono trascorsi quasi quattro anni, siamo in piena balia di ANAS (vedi) a cui viene consentito di istituire una frontiera ciclabile all’interno del Comune di Foligno e tra questo e il Comune di Valtopina, oltre che di interrompere la Ciclovia Bicitalia 8 che insiste su quel tragitto, mentre la Regione Umbria, con l’assessore Melasecche, nel suo iper attivismo infrastrutturale, non si è mai pronunciata.

Per avere un aggiornamento a riguardo, ho chiesto informazioni ai competenti uffici della Regione Umbria, confidando nelle conoscenze personali.

Ne è emerso che, proprio nel 2022, ovvero l’anno in cui ANAS istituì i divieti sulla SS 3, l’assessore regionale Enrico Melasecche, dal momento che il sindaco di Gualdo Tadino, capofila del progetto stesso, aveva manifestato la sua riluttanza ad intervenire nel territorio di Foligno,  fece richiesta di occuparsene al sindaco di Foligno, alla quale richiesta Zuccarini rispose positivamente.

Compito preliminare del Comune di Foligno sarebbe stato in particolare quello di redigere un progetto strutturale di variante ciclabile al percorso vietato sulla SS 3, che sarebbe stato finanziato avvalendosi per quota parte dei fondi in carico al Comune di Gualdo Tadino.

Da un colloquio intercorso con l’assessore Franceschini del Comune di Gualdo Tadino, è poi emerso che i finanziamenti previsti per l’intervento non sono più disponibili  e che, presumibilmente, da parte della Regione Umbria, ipotizza l’assessore, siano stati destinati alla realizzazione della Ciclovia Terni – Marmore.

La progettazione, in pratica, sarebbe ultimata ma, almeno nel territorio del Comune di Foligno, non sarebbe realizzabile per mancanza di fondi.

A proposito di progettazione, indovinate cosa mi è stato riferito circa la la soluzione individuata? Salvo dettagli, che si tratta di quella da me proposta fin dal 2020.

In sostanza, dal 2022, la Regione Umbria non ha mai risposto alle mie reiterate istanze sul tema, il Comune di Foligno ha sempre lasciato intendere che fossimo in alto mare, invece sia l’una che l’altro facevano i pesci in Barili e lavoravano su un progetto ispirato da un comune cittadino, un progetto che poi resta sulla carta per mancanza di soldi, almeno fin quando Zuccarini non troverà i soldi. Il tutto, ovviamente, alla chetichella,

Mi dice la segreteria dell’assessore Melasecche che le notizie si forniscono solo quando si è ottenuto il risultato. Peccato che il progetto di ciclovia sia stato annunciato e varato quattro anni fa e che nel frattempo nessuno abbia sentito il dovere istituzionale di dare notizia del fatto che il progetto fosse in alto mare e che, forse, tale resterà chissà ancora per quanto.

Evviva la trasparenza!


Foligno, 19/7/2020

Spett.le Comune di Foligno
Spett.le Comune di Gualdo Tadino,
Spett.le Regione Umbria,

Oggetto: Variante ciclabile zona Palazzaccio.

Faccio seguito al colloquio telefonico intercorso con l’assessore Stefano Franceschini del Comune di Gualdo Tadino per proporre una ipotesi di variante ciclabile nella zona denominata “Palazzaccio” necessaria per superare le criticità viabili occorse a seguito dei lavori di messa in sicurezza della SS 3 Flaminia.

Tale ipotesi si basa sulla consultazione delle mappe catastali dell’Agenzia delle Entrate che mostrano come esista una strada utilizzabile allo scopo che, partendo da una delle rampe del nuovo svincolo a Nord di San Giovanni Profiamma, aggira il fiume Topino per ricongiungersi con alcune case sparse già collegate da una strada di nuova realizzazione che si dirama dallo svincolo di Ponte Centesimo.

Più di uno degli abitanti del luogo mi hanno detto che tale strada un tempo era praticabile, anche con autoveicoli, e che quindi sia necessario il solo ripristinarla allo scopo e metterla in sicurezza, previa bonifica dalla vegetazione e di eventuali dissesti intercorsi col tempo.

Allego le mappe sia con vista satellitare che catastale.

Distinti saluti.

Sergio Fortini


Parco con Tigre

Con un comunicato stampa in data 29 marzo scorso, il Comune di Foligno informa che:

“Con la riapertura avvenuta oggi del Parco degli Orti Jacobilli, chiuso da quasi trent’anni, si completa a Foligno la serie di interventi compiuti” con “il progetto del Parco Urbano diffuso’” che “ha l’obiettivo di promuovere la conoscenza del territorio, dell’ambiente, della biodiversità e del paesaggio”. “Sono state eseguite opere di restauro delle mura di cinta e del portone di ingresso e per il verde. A questo proposito ci saranno il giardino fenologico con specie vegetali perenni con lo specifico scopo di registrarne con regolarità le fasi di sviluppo e studiare gli effetti del clima sulla loro crescita e il prato fiorito dove è stata seminata una miscela di piante e fiori autoctoni che attirano gli insetti impollinatori in grado di garantire, con la loro attività, le funzioni essenziali per la prosperità delle piante, assicurando un ecosistema funzionante”.

Bene, bravi, ci sarebbe da dire.

Peccato che, tra i tanti motivi di vanto per il lavoro svolto ci sia un elemento non irrilevante su cui casca il solito asino: la vista sugli impianti tecnologici del vicino supermercato Tigre, che si gode attraverso l’apertura di un elemento architettonico, paradossalmente dotato di ringhiera per meglio affacciarsi e ammirare cotanto panorama.

Possibile che nessuno abbia pensato o ritenuto opportuno intervenire per evitare questo stridente contrasto? I nostri dilettanti allo sbaraglio si occupano dell’insieme ma perdono di vista il dettaglio, anche quando il dettaglio è un pugno in un occhio.

E così, agli Orti Jacobilli, abbiamo un Parco con Tigre, manco fosse un giardino zoologico.

Semo gente de Fuligno, semo fatti cuscì.

Linguaccia italiana

La “Divina Foligno” varca le Mura Urbiche e, secondo lo spirito quintanesco, muove nelle “campagne amene”. Prima tappa, Sant’Eraclio, la “Città del Carnevale”, ovvero una città nella Città.

La divina scampagnata si consuma con la collocazione, nei giorni scorsi, di un pannello informativo all’interno del “Castello di Sant’Eraclio”, che ne illustra la storia, con cenni che ne riguardano anche i dintorni più prossimi.

Bene, bravi, ci sarebbe da dire, se non si trattasse della tipica sfacciata operazione di propaganda elettorale e se la targa, oltre a inesattezze ed omissioni di carattere storico (su questo rimando a quanto scrive Roberto Testa su Facebook) non sia immune da svarioni grammaticali.

Il principale, che balza all’occhio in quanto si tratta di un titolo, è quello in cui, contro corrente rispetto al pensiero unico che intende controbilanciare il genere maschile con quello femminile e non viceversa, la “Fontana delle tre Cannelle”, come scritto poi in piccolo, diventa la “Fontana delle tre Cannelli”, al maschile.

Passi l’errore materiale ma è inammissibile che nessuno si sia premurato di controllare. Roba da andarsi a nascondere per la vergogna, però va tutto bene lo stesso, applausi da spellarsi le mani.

Peccato che proprio in questo periodo, in Città si celebrino le “Giornate  Dantesche”, in omaggio a colui che viene considerato il “Padre della Lingua Italiana”.

La lingua italiana… da una parte l’omaggio, dall’altra l’oltraggio.

Semo gente de Fuligno, semo fatti cuscì.

La chiesa che non fu


Ormai da un paio d’anni, nell’ambito del progetto “Divina Foligno”, è stata adottata in Città una nuova segnaletica turistica che, tra l’altro, consiste nella apposizione nei luoghi di interesse di specifiche tabelle di indicazione.

Da estenuanti ricerche sulla rete, non sono riuscito a cavare un ragno dal buco circa l’identità del bizzarro carattere tipografico adottato, non certo il massimo della leggibilità, a prezzo del massimo del mistero.

Una di queste tabelle, in Via Aurelio Saffi, indica il “Teatro San Carlo”, “XVII sec.”.

Il forestiero che legge, ma anche l’indigeno, è portato a dedurne che a Foligno, nel XVII secolo, fu costruito un teatro a cui fu data l’intitolazione di “Teatro San Carlo”, con  la mente che corre subito a quello celeberrimo di Napoli.

Basta però dare uno sguardo alla facciata, recentemente restaurata, per capire che non di teatro si trattava bensì di una chiesa.

Proprio nel sito comunale “Divina Foligno” (vedi), nella scheda “58. Teatro San Carlo”, per l’appunto, si trova scritto che:

“La chiesa barocca di San Carlo fu eretta dai Barnabiti nel 1612. Chiusa dapprima nel 1810 con la soppressione napoleonica dell’annesso convento e poi definitivamente con l’Unità d’Italia, successivamente è stata adibita a teatro“.

Quindi, è lo stesso Comune di Foligno a dire che nel secolo XVII non fu costruito un teatro ma una chiesa, poi adibita a teatro. Un teatro che, in tempi recenti, ha ripreso a funzionare, sotto l’egida della Diocesi, a cui appartiene.

Insomma, al Comune di Foligno, nelle indicazioni turistiche, hanno confuso, o unificato, la genesi e  la storia dell’edificio con la funzione attuale.

Una confusione che però non è stata fatta per la “Chiesa di San Domenico – Auditorium” né per la “Chiesa di Santa Caterina – Auditorium”, queste sono le scritte che, correttamente, recano le indicazioni.

Forse perché, a differenza del “Teatro San Carlo”, sono di proprietà comunale?

Misteri del Turismo.

C’è bisogno dello psicologo a scuola… Senza che tutti lo sappiano

Siamo studenti del Liceo Classico “Federico Frezzi” e abbiamo deciso di trattare un tema molto sentito nella nostra scuola e tra i giovani in generale.

Dal 21 febbraio è stato attivato nella sede “Frezzi – Beata Angela” lo “Sportello psicologico d’ascolto”, inserito nel progetto “Costruire con i giovani – Giovani energie”, finanziato dal Comune di Foligno. Lo Sportello consiste in una seduta completamente gratuita con uno psicologo esterno alla scuola, da svolgere individualmente o come classe durante le ore scolastiche.

Una lodevole iniziativa, ma che riscontra negli studenti poco successo e molto disagio.

Il problema maggiore riguarda la privacy dello studente: partecipare ad una sessione con lo psicologo implica l’alzarsi dal proprio banco durante una lezione e uscire dall’aula per un colloquio di una o due ore. Dunque la classe e l’intero collegio docenti sono inevitabilmente informati dell’incontro, dal momento che lo studente è ovviamente tenuto a giustificare la sua assenza e l’insegnante a segnarlo “presente fuori aula” nel registro elettronico. 

Anche il sistema di prenotazione è un altro fattore che di certo non stimola l’uso dello Sportello, in quanto è necessaria, se minorenni, un’autorizzazione firmata da entrambi i genitori e molto spesso questo è motivo di disagio. Di conseguenza, accettare questa procedura diventa quasi impossibile in un’età in cui ci si vergogna quasi costantemente di essere osservati, giudicati, criticati dagli altri.

Sebbene molti adolescenti vorrebbero confrontarsi con un esperto in grado di ascoltare i loro problemi e disagi, la generale assimilazione dello psicologo ad una sorta di “strizzacervelli” li porta poi a desistere, nella convinzione che sia meglio tenersi per sé i propri problemi piuttosto che rendere pubblico il fatto di averli. I giovani necessitano di potersi aprire liberamente senza sentirsi osservati e giudicati da tutti. È anche vero che forse la fruizione mediante le attuali modalità è un modo per ritenere del tutto “normale” e ordinario un colloquio con un esperto. Tuttavia, per quanto lo Sportello d’ascolto sia già di per sé un progetto estremamente importante e apprezzabile, poiché denota un interesse verso la salute psicologica degli studenti da parte della scuola, bisogna guardare in faccia alla realtà: il sistema con cui esso viene proposto purtroppo ne limita le possibilità, trasformandolo in un servizio di nicchia, poco usato e anzi spesso oggetto di derisione. 

Chiaramente i difetti del servizio sono causati anche dai vincoli, di orario e di responsabilità, a cui la scuola è sottoposta, ma lo Sportello continuerà ad essere poco usato finché non verrà garantita una maggiore privacy. Potrebbero bastare piccole modifiche, come sedute pomeridiane o nelle famose “seste ore”, spesso vuote, per portare un grande cambiamento e sfruttare al massimo un servizio che, specialmente dopo la pandemia, sta diventando sempre più necessario per i giovani.

TardaViaggio Foligno – Marzo 2024

L’agnello della comare

Finalmente la Santa Pasqua. Archiviato il baccalà quaresimale la pia comare s’addentra in una complicata apologia del sacrificio dell’agnello, come se a sacrificarsi fosse lei e non l’ovino in questione. La incontro in macelleria. Il suo arzigogolare è frutto di collaudati eufemismi per motivare lo spirito della tradizione. Mentre a momenti le scende una lacrima, scuotendo la testa bisbiglia: “ l’agnello va immolato se  si vuole rispettare la tradizione”. Tipo quelli che per pubblica decenza chiamano il becchino “addetto cimiteriale” e il bidello “operatore scolastico”. O quelli che dicono di essere contro la caccia ma non contro la cacciagione. Alla fine la comare si fa incartare il cosciotto – pronto per essere salato e lardellato – e mentre se ne esce soddisfatta entra un tipo di Rasiglia che chiede al macellaio se volesse un paio di capretti nati con la luna piena di febbraio: “l’ho sgozzati stamattina”. Pane al pane e vino al vino, senza affettata ipocrisia. Se ti esprimi politicamente corretto ma mangi scorretto è tutto un cavolo.   

giovanni.picuti@alice.it

29.3.2024

Messa alla porta

“Chiese sempre più vuote, solo 1 su 5 va a messa”, così titola una notizia ANSA del 17 agosto 2023, che nel sommario così precisa: “nel 2022 toccato minimo storico della pratica religiosa”. Così nell’articolo:

“Con la fine della pandemia la situazione non è tornata ai livelli precedenti e, anzi, è ulteriormente peggiorata. Negli ultimi vent’anni la fetta dei ‘mai praticanti’ è invece raddoppiata, passando dal 16% del 2001 al 31% del 2022”.

Eppure ci sono isole felici. In una parrocchia della Diocesi di Foligno, l’affluenza è tale che, per evitare ai fedeli di assistere in piedi alla messa, il prete è stato costretto a correre ai ripari.

Abdicando al luogo sacro per definizione, ovvero la chiesa parrocchiale, ha deciso di spostare le celebrazioni in un residuato dell’era del sisma del 1997, oltre venticinque anni fa, ossia in quello che viene indicato come “container”, evidentemente ritenuto più capiente, più confortevole e dunque più gradito, dimenticando cosa abbia significato per quelli che ci hanno vissuto loro malgrado anni ed anni. Questione di gusti.

Ma come mai cotanto afflusso, in questa parrocchia?

Il parroco non esita a rispondere alla domanda: perché le mie omelie durano tre minuti. Evidentemente in ossequio alle obiezioni di Bergoglio, che il 20 gennaio 2023, ai partecipanti a un corso di liturgia preso il Pontificio Istituto Sant’Anselmo, aveva detto:

“Per favore, le omelie sono un disastro. A volte io sento qualcuno: ‘Sì, sono andato a messa in quella parrocchia. Sì, una buona lezione di filosofia, 40, 45 minuti’. Otto, dieci: non di più”.

Le omelie di questo prete durano meno della metà di quanto auspicato da Bergoglio: probabilmente farà carriera.

L’importante è che la gente venga, non perda troppo tempo e, soprattutto, che stia comodamente seduta, sia pure in un “container”.

Buona Pasqua!

La nemesi della Pizza al formaggio 

Mia nonna riversava su di me bambino opinioni incontrastabili. In fatto di cucina ogni cosa diventava vangelo. Ricordo la mia meraviglia quando insieme a lei entrammo da Sandri e additammo una Pizza al Formaggio. Di rosso vestita, amabile come una corona di spine, la commessa perugina ci corresse seccata: “Quella è una torta”. La perentoria definizione mi fece pensare subito alla torta in crosta di pasta brisé ripiena di mele di Nonna Papera. L’altra nonna, la mia, alzò i tacchi e mi trascinò via. Mi ci vollero gli anni dell’università perché rientrassi in quel posto. Ieri mattina s’è verificata la cosa opposta. Quando si dice la nemesi. Il bancone è quello dove Merendoni dispensa le sue pastarelle, “se no che domenica è”? Il salametto duro l’ho già messo da parte per Pasqua, così chiedo alla commessa di Sergio una Pizza al Formaggio. Non l’avessi mai fatto. Mi appare da dietro le spalle una sfolgorante musa che mi riprende in perugino: “Si chiama torta, la pizza è quella là” indicandomi una teglia fumante di pomodoro e mozzarella. Vallo a spiegare a Gloria (dove la tocchi suona) che con Rita Boini ci abbiamo pianificato un convegno sui diversi modi di denominare in Umbria la torta di Pasqua, detta anche pizza a Foligno a Gubbio addirittura crescia di Pasqua o ciaccia (“che Dio l’accresca!”“nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo che pozzate cresce tre volte tanto”). Vallo a spiegare in giro che abbiamo anche scomodato le Tavole Iguvine, i riti collettivi, i forni comuni, sfogliato quadernetti ingialliti di ricette tramandati da madre in figlia. Io certe muse ispiratrici a cavallo del Tevere non ho la minima intenzione di contraddirle, anche se a forza di rincorrere carriere non hanno più messo le mani in pasta, anche se parlano in dolce stil nuovo del “Donca”, anche se non ho più l’età. E poi diciamoci la verità: meglio poco massaie come Gloria, che poco sfolgoreggianti di sguardo. Così ho additato la teglia fumante e mi sono fatto servire la pizza pomodoro e mozzarella. 

giovanni.picuti@alice.it 

20.3.2024 

Fatto il ponte tibetano, ora bisogna fare i tibetani

Parafrasando la celebre frase attribuita a Massimo d’Azeglio “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli italiani”, adesso che il ponte tibetano tra Sellano e Montesanto è pronto non rimane che i più impavidi si facciano avanti. L’opera è composta di 1023 scalini a pedata discontinua per una lunghezza totale di 517 metri, durante i quali si raggiunge un’altezza massima dal suolo di 175 metri. All’inaugurazione erano presenti il sindaco di Sellano Attilio Gubbiotti, l’ingegnere capo progettista Marco Balducci, il destination manager (esperto di marketing) di Visit Sellano Paolo Borroi, l’assessore regionale con delega al turismo Paola Agabiti, il Senatore Guido Castelli in qualità di commissario alla ricostruzione post-sisma, il presidente dell’Assemblea Legislativa della Regione Umbria Marco Squarta e l’imprenditore Brunello Cucinelli. A presenziare la conferenza stampa e la successiva inaugurazione ufficiale con taglio del nastro anche una gremita folla di residenti e non, i quali chi per curiosità e chi per provare il brivido di attraversare il ponte si sono recati a Sellano.

Nella prima giornata, infatti, è stato possibile per i residenti attraversare il ponte gratuitamente, mentre da oggi in poi sarà possibile farlo pagando 25 euro o 30 euro con la navetta di ritorno da Montesanto. I più temerari oltre che l’attraversata potranno tornare passando per i percorsi di trekking oppure restare per sempre a Montesanto e ricostruirsi lì una vita, se lo desiderano. Il sindaco Attilio Gubbiotti, simbolicamente, è stato il primo ad attraversare il ponte dopo aver tagliato il nastro inaugurale. Prima della traversata si viene imbragati da un team di esperti per poter procedere con il moschettone lungo le funi del ponte. L’imbrago è comodo e la procedura molto snella e veloce, qualcuno magari potrebbe suggerire che sia più opportuno ‘mbriacarsi piuttosto che imbragarsi per affogare le paure nell’alcol, ma non è il ponte tibetano il luogo adatto a tali suggestioni. D’altronde, il ponte è stato costruito con funi ad hoc e, come spiega il capo progetto Ing. Marco Balducci, non c’è motivo di avere timore.

Ing. Marco Balducci

Ingegnere Balducci, costruire una struttura del genere in un’area sismica comporta dei pericoli?
“Assolutamente no. Il terremoto è un pericolo per strutture dotate di massa elevata, come può essere un grande edificio, ma non è questo il caso del ponte tibetano. Il ponte potrà accogliere al massimo 75 persone contemporaneamente, ma non è questo a costituire una criticità”
Potrebbero essere la neve o il vento a creare problemi alla struttura?
“Quando abbiamo fatto le prove di peso sul ponte, lo abbiamo fatto proprio per garantire che la struttura regga in caso di accumuli di neve o forte vento. Sappiamo che la struttura è in grado di reggere queste eventualità, il collaudo è stato fatto proprio ad hoc mettendo in tensione il ponte verso il basso per simulare carichi molto pesanti”
Cosa succede se qualcuno dovesse sentirsi mancare a metà del percorso?
“Per questa situazione abbiamo previsto in loco la presenza di un’esperta squadra di soccorritori attrezzata con barelle e quanto necessario per il trasporto di persone”.

Il ponte tibetano rappresenta un volano per il tessuto economico, sociale e turistico della Valnerina, oltre che un altro importante tassello da aggiungere all’attuale slancio di alcune frazioni montane come Rasiglia o Pale. A tal proposito, il sindaco Gubbiotti ha affermato che sta lavorando a stretto contatto con le istituzioni del Comune di Foligno per un progetto comune che coinvolga queste località. Il cambio di prospettiva necessario è di non far pagare alla montagna il gap infrastrutturale rispetto alle città, al contrario occorre sia salvaguardare il territorio che renderlo abitabile. Lo stesso Cucinelli ritiene che l’Umbria, e in generale i luoghi immersi nella natura, stiano diventando un punto di riferimento mondiale: “Gli americani comprano case nei paesini dove noi siamo cresciuti, perché qua trovano la cura al mal dell’anima, la spiritualità, il misticismo e la verità. Faccio un appello per la salvaguardia della bellezza, cerchiamo di essere cittadini puliti e rispettosi”. Ora non resta che prendere un bel respiro, scacciare paure ancestrali e, un passetto alla volta, fare i tibetani.

©

Diocesi Ortodossa

Articolo in collaborazione con GATTEZZA DI FOLIGNO

Note — n. 28 del 23.3.2024

DIOCESI ORTODOSSA

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Scor­ren­do Face­book, mi appa­re un post che riman­da alla pagi­na (vedi) del sito del­la Dio­ce­si di Foli­gno dal tito­lo: “Foli­gno: Set­ti­ma­na San­ta, ecco gli appun­ta­men­ti”. Nel­la pagi­na del­la Dio­ce­si è pre­sen­te la stes­sa imma­gi­ne in evi­den­za del post, che raf­fi­gu­ra un cro­ce­fis­so por­ta­to in pro­ces­sio­ne. Un cro­ce­fis­so che, però, non è di quel­li che sia­mo abi­tua­ti a vede­re. Fac­cio una rapi­da ricer­ca in rete e tro­vo che que­sta imma­gi­ne, oltre che da alcu­ni siti polac­chi, è sta­ta uti­liz­za­ta dal quo­ti­dia­no “Avve­ni­re”, il 3/4/2020 ed il 12/9/2020.  In entram­bi i casi, sot­to l’im­ma­gi­ne, è pre­sen­te una dida­sca­lia che, nel­l’e­di­zio­ne più recen­te, così reci­ta: “Una pro­ces­sio­ne del Vener­dì San­to nel­la cit­tà vec­chia, a Geru­sa­lem­me — Archi­vio Ansa”. Ma che tipo di pro­ces­sio­ne si svol­ge, a Geru­sa­lem­me, per il Vener­dì San­to? Mi vie­ne in aiu­to il sito OLYCOM che, il 22/4/2022, pub­bli­ca un arti­co­lo (vedi) dal tito­lo “Pasqua orto­dos­sa, le cele­bra­zio­ni dei fede­li nel Vener­dì San­to a Geru­sa­lem­me”. Tra le imma­gi­ni, ce ne sono due che raf­fi­gu­ra­no rispet­ti­va­men­te uno e più cro­ce­fis­si iden­ti­ci a quel­lo del­l’im­ma­gi­ne sul sito del­la Dio­ce­si di Foli­gno. Il cer­chio si chiu­de. Si trat­ta di cele­bra­zio­ni del­la Pasqua Orto­dos­sa. Det­ta­glio non insi­gni­fi­can­te, lo stes­so sito OLYCOM pre­ci­sa che “I cri­stia­ni orto­dos­si, che seguo­no il vec­chio calen­da­rio giu­lia­no, segna­no la Pasqua que­sta set­ti­ma­na. Le con­gre­ga­zio­ni cat­to­li­che e pro­te­stan­ti che osser­va­no il nuo­vo calen­da­rio gre­go­ria­no, han­no tenu­to le loro cele­bra­zio­ni pasqua­li la scor­sa set­ti­ma­na”. Tan­to per riba­di­re che cat­to­li­ci ed orto­dos­si, oltre ad ico­no­gra­fie, han­no anche calen­da­ri diver­si. Mora­le del­la favo­la: con tut­te le pos­si­bi­li imma­gi­ni che si pos­so­no facil­men­te repe­ri­re nel­la Dio­ce­si, vedi Pas­sio­ne di Fia­men­ga o Pro­ces­sio­ne del Cri­sto Mor­to di Col­fio­ri­to, sono anda­ti a rac­ca­pez­za­re un’im­ma­gi­ne sacra che pro­vie­ne da Geru­sa­lem­me e che riguar­da non la Pasqua Cat­to­li­ca ben­sì quel­la Orto­dos­sa. Se non fos­se una can­to­na­ta pre­sa per leg­ge­rez­za o per pigri­zia, ci sareb­be da sospet­ta­re, stan­te il ber­go­glie­si­mo impe­ran­te, che sia sta­to fat­to apposta.

Ser­gio Fortini


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Source: www.gattezzadifoligno.it

Il simbolismo urbano di Ivan Theimer

(Ovvero l’uso equivoco della configurazione grafica delle due cifre che compongono il numero di cui la seconda è il rovesciamento della prima)

Ho ascoltato questo aneddoto dalla viva voce dell’architetto Luciano (se non Giuseppe) Piermarini, che dello scultore Ivan Theimer è grande amico e ne fu guida spirituale sulle sponde del Topino. Luciano ebbe il suo bel daffare per convincere la Giunta Salari a far passare un progetto in cui due tartarughe di bronzo s’ingroppavano tra loro. Mentre la possente gru s’apprestava a calarle dall’alto nel bel mezzo di Piazza don Minzoni l’artista ceco esclamò: “A Lucià, non quella grande, cala prima quelle due che scopano”. Un modo come un altro per manifestare per le vie brevi la robusta tensione dell’artista verso il trascendente. Nel vedere le due bestiole a parti invertite, una che dava sollazzo all’altra, sobbalzò sulla seggiola il pudico sindaco Salari urlando: “Piermarì da te che hai fatto il Sessantotto non me l’aspettavo”. La tanto discussa fontana in definitiva si fece. Certamente grazie a Italo Tomassoni che portò Theimer a Foligno, ma anche grazie a Piermarini che permise la collocazione delle sollazzanti testuggini aggirando la censura.
19.3.2024
giovanni.picuti@alice.it

Secondo Federico

Unica traccia a Foligno di Federico II, fino a ieri, era un dipinto di Mariano Piervittori (Tolentino 1818, Orvieto 1888).

Infatti, tra le opere con cui decorò tra il 1884 e il 1887 la “Sala delle Adunanze” del Palazzo Municipale, c’è l’affresco che raffigura “Federico II giovinetto affidato nel 1198 ai Consoli di Foligno” (sic, Comune di Foligno, 15/10/2001).

Peccato che la figura del “giovinetto” quivi effigiato non sia compatibile con l’età di 4 anni che, essendo nato nel 1194, avrebbe dovuto avere nell’episodio del dipinto. Ciò nonostante,  questa scena resta oggetto di devozione.

Ora, finalmente, il nome di Federico II sarà “ufficializzato” alla Città con una targa già collocata sulla facciata del Palazzetto del Podestà in Piazza della Repubblica e che verrà inaugurata domani 21 marzo. Bene, bravi.

C’è il rischio di altri dubbi? Per fortuna no. Evitando di scivolare su narrazioni opinabili, ci si è attenuti alle parole dello stesso Federico II che, in una lettera dalla quale si fece precedere nella sua visita a Foligno nel 1240,  scrisse tra l’altro:

“Inducimur nihilominus ex illa causa potissime quod in Fulgineo fulgere pueritia nostra cepit: et sicut dum civitatem vestram locum nutriture nostre recolimus, dum vobiscum quasi civiliter convixisse pensamus, erga vos quodammodo dominantis modum excedimus, et naturali quadam humilitate seducti ad vestrum salubre regimen familiariter obligamus”.

Facendo la scelta di proporne la traduzione in italiano di un estratto,  anziché nel testo originale, come sarebbe stato filologicamente più corretto, questa è la scritta che è stata incisa sulla lapide:

“a Foligno cominciò a risplendere la nostra puerizia e così quando ricordiamo la vostra città come il luogo in cui siamo stati allevati in qualche modo ci spogliamo di fronte a voi dei panni del sovrano”

con un virgolettato fuori luogo, che vale come citazione del traduttore anziché dell’autore.

Le mie reminiscenze latine non mi consentono di valutare con convinzione se tale traduzione sia conforme, è un compito che lascio ai professori, anche se ad occhio qualche dubbio mi sorge, in particolare sui “panni del sovrano”.

A margine della questione del testo, c’è da dire che la data sulla lapide (1249) non corrisponde a quella (1240) indicata nella mia fonte (Mario Sensi). Qual è quella giusta?

Sta di fatto che sul come e quando il pargolo Federico II giunse a Foligno, altra leggenda cittadina, si è preferito opportunamente sorvolare. Cosa buona e giusta, alla luce di quanto emerso in proposito nel 1998.

Accadde infatti che  la principessa Kathrin Ira Yasmine Aprile von Hohenstaufen Puoti, che si fregia del titolo di discendente di Federico II, chiamò il quotidiano “la Nazione” per rivelare una sua scoperta, avvenuta durante l’opera di sistemazione dell’archivio della Hohenstaufen House di Alfi Fiordimonte (Macerata), a seguito del terremoto del 1997.

La scoperta consisteva nel fatto che Federico II, che da Jesi, ove era nato, era stato portato inizialmente nella abbazia-fortezza cistercense di Alfi Fiordimonte, per essere allattato dalla duchessa di Urslingen, vi fu successivamente allontanato per essere condotto a Foligno, dove rimase fino al 1197, in virtù di una profezia secondo la quale sarebbe morto ““sub flore apud portam ferream”, cioè in un luogo dal nome di “fiore”, davanti ad una porta di ferro.

Sulla “Nazione” del 24 gennaio 1998, edizione dell’Umbria, sezione Cultura, fu pubblicato un articolo sul tema, di cui scopro solo oggi che l’autrice fu Patrizia Peppoloni, ma del quale articolo, evidentemente, nessuno si è mai curato. Ai giornalisti non è concesso di intromettersi in fatti di Storia e meno che mai nelle leggende.

Spero almeno che la principessa Kathrin Ira Yasmine Aprile von Hohenstaufen Puoti, che ho cercato di contattare scrivendole agli indirizzi e‑mail che sono riuscito a trovare in rete, a distanza di oltre 25 anni, possa fare di nuovo la sua apparizione per dire la sua ai Folignati, con l’autorevolezza del suo blasone.

 

PiCello Bros – Amici della Musica

Foligno, 17/3/2024, Auditorium di San Domenico. Amici della Musica di Foligno. “Specchi deformanti”. PiCello Bros. Francesco Pepicelli, violoncello; Angelo Pepicelli, pianoforte.

Italia senza isole: un brevetto folignate

Desta scalpore la notizia che, alla Fiera di Vienna, nello stand della Regione Calabria, “in una parte marginale del padiglione è presente una piccola immagine stilizzata della Penisola senza le due isole”.

Questo, precisa Maria Antonella Cauteruccio, dirigente generale al Turismo, Marketing territoriale e Mobilità della Regione Calabria, con “il solo obiettivo di mettere il più possibile in primo piano la posizione geografica della Calabria”, precisando che “non si tratta della riproduzione né di una mappa fisica, né di una mappa politica del nostro Paese”. (Fonte: ANSA)

La notizia su RAI TGR Calabria.

Tanto clamore per un fatto che fu già inventato a Foligno nel 1947, quando la lapide ai Caduti della Guerra di Liberazione, collocata sulla facciata del Palazzo Comunale, fu realizzata allo stesso modo.

Reclamiamo con forza il primato.

Dopo essere passato indenne ad una istanza posta dal sottoscritto nel 1995 al Presidente della Repubblica a cui fu costretto a rispondere, fu lo stesso sindaco Manlio Marini, in seguito, incalzato da alcune forze politiche, a porvi rimedio, facendo collocare le due regioni insulari mancanti che gli furono consegnate belle e confezionate.

 

Fine dell’esperimento infinito

Questa immagine è relativamente recente, essendo stata ripresa il 23 giugno 2022 lungo la strada che da Ravignano conduce al Monte di Pale.

L’ultima volta che ci sono passato, il 3 marzo scorso, la scena non era più questa, perché la segnaletica qui raffigurata non era più presente, anche se non so dire da quanto tempo. Sicuramente è stata rimossa dopo il 13 gennaio 2023, quando ci sono passato la penultima volta, senza scattare foto, quindi nel corso dell’ultimo anno.

Segnaletica rimossa dopo la bellezza di oltre 15 anni. Infatti ne trattai per la prima volta in un articolo pubblicato nel febbraio 2008, a cui fece seguito un ulteriore articolo nel dicembre 2009, entrambi sulla Gazzetta di Foligno. Nel maggio 2021 feci un semplice richiamo, con immagini aggiornate, sulla mia testata personale, la Gattezza di Foligno.

Tale segnaletica indicava come pericoloso un tratto di strada di 600 metri in virtù della pavimentazione sperimentale che vi era stata allestita, disponendo su quel tratto di strada il limite di velocità di 30 chilometri orari.

Ovvero, per condurre un esperimento di pavimentazione stradale, si introduceva contestualmente un elemento di pericolo a detrimento dei veicoli in transito sulla strada, i cui conducenti, per limitare il rischio dovuto all’esperimento in corso, erano obbligati a limitare la velocità.

Logica vorrebbe che un intervento stradale sia finalizzato a ridurre il rischio e non certo ad accrescerlo, ma al Comune di Foligno così funzionava e così continua a funzionare.

A quanto si è potuto rilevare nel corso degli anni, non solo questa pavimentazione sperimentale (a differenza di quella impiegata efficacemente e senza tante messe in scena sulla strada che da Collepino sale verso il Subasio) non era distinguibile dal comune asfalto usato abitualmente, ma si è progressivamente deteriorata, presumibilmente aggravando il pericolo, col risultato che, dopo tutto questo tempo, ne sono rimaste solo rare tracce, che sarebbe ugualmente il caso di rimuovere.

Cosa sia intervenuto affinché il Comune di Foligno abbia finalmente deciso di porre fine a questa ennesima farsa non è dato sapere.

Resta comunque un quesito legittimo a cui, per decenza, l’Area Lavori Pubblici dovrebbe sentirsi in dovere di rispondere, ovvero se questo esperimento durato oltre così a lungo, abbia prodotto risultati utili in termini di esperienza e di benefici applicabili in futuro.

Se sì, quali e quando?

Se no, dobbiamo credere che, per oltre 15 anni, ci abbiano solo preso in giro?

Quel libro verde…

Di NAZZARENO MONACHESI

Chi si ricorda la  grande locomotiva a vapore proprio al centro della nostra Piazza della Repubblica?

Erano gli ultimi mesi del 1989 e, in città, si svolgeva una importate iniziativa, “Foligno Città Ferroviaria” con mostre, visite guidate e conferenze che avevano come scopo quello di rimarcare il ruolo degli insediamenti ferroviari nella nostra realtà e progettarne il futuro.

Proprio per l’occasione, fu stampato anche un libro: “La città di Foligno e gli insediamenti ferroviari”.

Un libro dalla foderina verde… quel verde che tradotto “green” anticipava di decenni quella “sostenibilità ambientale” che proprio oggi sta indirizzando l’economia globale.  Le ferrovie, infatti,  sono generalmente considerate un mezzo di trasporto più sostenibile dal punto di vista ambientale rispetto alla gomma. L’utilizzo del trasporto ferroviario può contribuire a ridurre le emissioni di gas serra e l’inquinamento dell’aria ma anche a ridurre la conta di morti e feriti sulle strade.  Senza dimenticare che, una sana politica ambientale andrebbe ad interessare anche il trasporto pesante delle merci oggi perlopiù sviluppato su gomma. 

Un libro che, ovviamente, non si limita alla foderina. Basta sfogliarlo, anche senza leggerlo, guardare solo le foto per comprendere così che le ferrovie, con i suoi insediamenti, hanno contribuito allo sviluppo economico del territorio folignate e della regione creando anche migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti. 

Nel libro si racconta come e perché, verso la metà del XIX° secolo, fu scelta Foligno come nodo centrale delle nuove linee ferroviarie che collegavano la capitale verso il nord e verso l’Adriatico. 

Foligno era un già un centro fiorente in tanti campi, vivo, attivo. Un punto di incontro, di scambi, di mercati. Il territorio oggi ci mostra tanti segni di quel passato. Ma ci mostra anche le ferite del venir meno, piano piano, di quella centralità che il mancato rinnovo delle infrastrutture ha comportato negli anni. Ferite che si sono aperte anche perché, dei tanti progetti di quel 1989, ben pochi si sono realizzati.

È per questo che, nel precedente articolo ho sostenuto il problema degli ennesimi ritardi al raddoppio della Orte Falconara. 

Non si può perdere tempo. Non bisogna fermarsi alle promesse! Ogni anno perso e quelle ferite aumentano, si allargano, non bisogna rischiare che si trasformino in qualcosa di irreversibile!

Gli investimenti nelle infrastrutture ferroviarie possono avere impatti positivi sull’economia locale. Progetti di ampliamento o miglioramento delle reti ferroviarie stimolano da subito l’industria delle costruzioni e dei servizi.  Ma dopo, un territorio con buone connessioni ferroviarie, può risultare più attrattivo per gli investitori. Le imprese spesso cercano luoghi facilmente accessibili e ben collegati per ridurre i costi di trasporto delle merci e facilitare gli spostamenti dei dipendenti.

In sintesi, bisogna avere o riscoprire la consapevolezza del ruolo significativo delle ferrovie su un territorio e dell’importanza che il trasporto su ferro riveste per lo sviluppo economico, l’accessibilità, la mobilità delle persone e delle merci. 

Per questo che il verde non sia solo green, non sia solo memoria, ma  sia, finalmente, il colore della speranza, perché, in futuro, si può e si deve fare di più!

Cremazione, dati e prospettive sul territorio

Oltre il ‘caso Colfiorito’ è possibile parlare di cremazione senza pregiudizi e dati alla mano: la situazione umbra, la posizione della Chiesa cattolica e l’impatto dei templi crematori su dati certificati 

Solo negli ultimi giorni le cronache cittadine si sono occupate di cremazione. Non certo entrando nel merito dell’argomento: dopo la notizia dell’avvio di un iter da parte di privati per la costruzione di un Tempio crematorio a Colfiorito è stata immediata la levata di scudi di alcuni colfioritani, che hanno creato un comitato popolare per dire no all’impianto.
Durante un partecipatissimo incontro sul luogo, indetto e condotto dall’amministrazione comunale il 1 marzo scorso, l’assessore delegato Marco Cesaro ha cercato di delineare il tema sotto il profilo tecnico e amministrativo; ma poco – su questo fronte – è stato possibile approfondire.
“Questo impianto non lo vogliamo, lo capite o no?” era, in buona sostanza, il messaggio che sorgeva a voce alta fra le teste dei numerosi partecipanti all’incontro.

 

Dopo pochi minuti di preambolo del sindaco Stefano Zuccarini, che aveva aperto la serata chiedendo interventi dal pubblico e ricevendo i timori di molti che specificavano di voler “tutelare il territorio” sia sotto il profilo ambientale che per le ripercussioni “di immagine” ed economiche, trattandosi di una zona a vocazione agricola e di produzione agroalimentare di pregio, il primo cittadino ha detto: “L’impianto non si farà”. ‘Not In My Backyard‘ non nel cortile dei colfioritani; si chiama NIMBY, acronimo della frase inglese appena enunciata, la forma di protesta di un gruppo di persone che vede minacciata la sicurezza della propria area di residenza dall’insediamento di opere indesiderate.
Chi scrive, insieme a molti altri arrivati sino a Colfiorito per capire i contorni di un tema tanto delicato quanto di interesse generale, avrebbe voluto saperne di più sull’argomento, data la preoccupante condizione dei cimiteri comunali non solo folignati ma umbri.
Se quell’incontro non è stato l’occasione per approfondire un tema che ci riguarda tutti, come avrebbe voluto fare qualcuno giunto da Foligno per dire la sua e zittito dalla folla, vediamo di cogliere adesso qualche spunto di riflessione.

IN UMBRIA DUE ASSOCIAZIONI PER LA CREMAZIONE
Sono due le associazioni per la cremazione in Umbria: L’Associazione per la Cremazione di Perugia (città che ha un tempio crematorio in funzione, l’unico in Umbria) è legalmente riconosciuta dal 1989 e sono circa 2.800 gli iscritti di Foligno.
Per aderire è necessario redigere di proprio pugno la dichiarazione di volontà alla Cremazione, e qualora ci siano impedimenti fisici l’iscrizione può essere effettuata con dei testimoni. Nel modulo ci sono i dati anagrafici, la dichiarazione di volontà che attesti che la propria salma sia cremata, la dichiarazione che le proprie ceneri siano disperse o affidate ai propri cari nominando esecutore testamentario il Presidente dell’Associazione per la Cremazione di Perugia. La dispersione delle ceneri può avvenire nel Giardino delle Rimembranze situato nel Cimitero Monumentale di Perugia.
Un dato su tutti: oltre la metà dei cremati non si iscrive più, perché se anche il defunto non lascia alcuna volontà il parente più prossimo o il coniuge possono procedere con una dichiarazione espressa e sottoscritta firmata di fronte all’ufficiale di stato civile del Comune.

A Spoleto c’è invece la Società di cremazione Luigi Pianciani; L’Associazione di Cremazione spoletina è la più antica dell’Umbria, nata nel 1903 e oggi, come si apprende dal suo sito web, conta oltre 340 iscritti, provenienti da diversi comuni Umbri. Qui è dal 2016 in programma il restauro di un antico ‘carro crematorio napoleonico’ e la società vorrebbe ripristinare il tempio crematorio per il quale “si è fatta avanti una società molto importante a livello nazionale che si impegnò a provvedere essa stessa a realizzarlo e anche a gestirlo per 4 o 5 anni. Da sottolineare che questa importante società ne ha in gestione altri 11 in tutta Italia. Il sindaco Sisti, però, dopo aver avocato a se tutta la questione, non si è fatto più sentire”.

NUMERI E TEMPI DI ATTESA IN UMBRIA
Partiamo dall’attualità: lo scorso dicembre il Comune di Perugia ha annunciato di voler accelerare l’iter per realizzare un secondo forno crematorio per il cimitero monumentale al fine di far fronte alle richieste in crescita, non solo dal territorio perugino e limitrofo, ma anche da fuori regione. È qui che arrivano anche le salme della Valle Umbra sud. Perugia, come riportava Il Messaggero Umbria in un articolo online del collega Riccardo Gasperini, ha approvato uno studio di fattibilità per la realizzazione della seconda linea del Crematorio Ariodante Fabretti, finanziata con un mutuo per 1,2 milioni di euro.
La necessità nasce dai numeri: “Se qualche anno fa si parlava di un numero di 1600 cremazioni nell’arco di 12 mesi, il 2022 si era chiuso con 1813 cremazioni. Ad oggi i dati parlano di 1900 domande: è il dato del 2023, ancora non terminato e che dunque sarà maggiore nel bilancio finale”. Nel 2023, come ci spiegano alcuni operatori del settore, le cremazioni a Perugia sono state 2.300.
Il tempio crematorio di Perugia ha tempi di attesa importanti: se per i perugini è necessario attendere almeno 5 o 6 giorni perché un proprio caro trovi finalmente riposo;  per i defunti che arrivano da fuori territorio l’attesa aumenta, non avendo precedenza in quanto residenti. Per un folignate deceduto l’altroieri, ieri mattina la prima disponibilità fornita dall’impianto di Perugia – solo perché un’altra famiglia aveva rinunciato – era per il 18 di marzo, dunque con un attesa di 11 giorni. Altrimenti la prima data disponibile sarebbe stata il 21 marzo: due settimane. Un lunghissimo tempo nel quale i familiari di un defunto che avesse scelto di essere cremato si trovano a dover vivere una situazione psicologicamente devastante. Intervistando un operatore del settore scopriamo che sono 300 (per una sola agenzia) le salme cremate in un anno da Foligno a Perugia; numero che, considerando tutte le agenzie di pompe funebri cittadine, potrebbe salire almeno fino a 900 (in una stima, ci dicono, al ribasso). La cremazione infatti è anche destinata alle salme che devono essere riesumate dopo alcuni decenni dai cimiteri comunali: a Foligno sarebbero circa 2000 i corpi che attendono questo trattamento.

 

Non solo Foligno: tutti i cimiteri comunali della zona hanno lo stesso, enorme, problema di spazio, crescita della struttura muraria e dunque consumo di suolo, ingrandendosi e riempiendosi sempre di più.
In molti casi (come si vede nel video, riferito a Colfiorito ma che potrebbe essere di qualsiasi altro cimitero cittadino) i riesumati vengono rimessi sotto terra in campi comuni per un effetto non propriamente decoroso.

Da un familiare riceviamo una video testimonianza, registrata a Perugia nella sala dove attraverso uno schermo è possibile osservare la bara del proprio caro mentre sta entrando nel tempio crematorio. Proprio accanto, nella stessa sala, c’è una bara che contiene la salma di uno sconosciuto , in attesa della cremazione. “Una situazione terribile, che va contro la tutela della dignità di chi si trova a dover salutare un familiare defunto” ci raccontano.

IMPATTO AMBIENTALE: UN PO’ DI CHIAREZZA
Oltre a dover superare un limite di tipo culturale, la scelta della cremazione deve anche fare i conti con l’idea che gli impianti siano poco sostenibili. Cercando in rete ‘cremazione e impatto ambientale’ il primo studio che si trova risale al 2016 ed è firmato da ISDE Italia, associazione medici per l’ambiente. “La cremazione annuale di migliaia di salme potrebbe causare emissioni di decine di chilogrammi di mercurio. Uno studio inglese stima che per il 2020 il mercurio emesso dalla pratica della cremazione peserà per il 35% del mercurio totale emesso in atmosfera”: questa l’anteprima Google del documento.
Da allora a oggi le cose sembrano essere cambiate: rigidi protocolli nel trattamento dei fumi e dei residui e tecnologie avanzate rendono i moderni impianti crematori strutture al 100% sostenibili. Lo studio comparato del Dipartimento di Scienze Teoriche e Applicate dell’Università degli Studi dell’Insubria, basato su analisi e dati reali, restituisce un quadro assolutamente rassicurante. “Le emissioni prodotte da un crematorio di ultima generazione ‑si legge nel documento prodotto per la realizzazione del tempio crematorio di Fondi, in Lazio –  non presentano alcun tipo di criticità”. Tre, nello specifico, le tipologie di emissione messe sotto esame.

  • Polveri (PM10). I risultati di abbattimento del particolato e degli inquinanti con trattamenti congiunti dei fumi con adsorbenti (carbone attivo) e filtri tessili sono ottimi e normalmente molto inferiori al limite di Legge.
  • Mercurio (Hg). Il mercurio presente nelle emissioni deriva essenzialmente dalle otturazioni dentali dei defunti. Il mercurio presente come gas nei fumi viene abbattuto a secco dosando carbone attivo nella fase di trattamento in cui sono abbattuti, oltre ai metalli, anche i gas acidi e i micro-inquinanti organici. Le polveri di abbattimento vengono smaltite come rifiuti speciali pericolosi in impianti autorizzati.
  • Diossine e Furani (PCDD-PCDF). La curva formazione/temperatura di combustione porta a una produzione minima attorno alla temperatura di circa 950°C; un rapido raffreddamento dei fumi limita la ri-formazione di questi composti. Queste condizioni guidano, per l’appunto, la progettazione dei forni. E in effetti i rilievi effettuati dimostrano percentuali di emissioni millesimali rispetto alle soglie stabilite dalle norme. 

Quanto alle falde acquifere le acque di scarico generate dalla struttura sono, oltre che di volume ridotto, assolutamente analoghe ad acque reflue urbane, in quanto prodotte dai servizi igienici dell’impianto (a servizio dei dipendenti e del pubblico presente alle cerimonie) e dalle operazioni di ordinaria pulizia degli ambienti. Le operazioni relative al tempio crematorio non prevedono l’impiego e lo scarico di liquidi: le tecnologie attuali di trattamento dei fumi sono basate su trattamenti di depolverazione fumi “a secco” con l’uso di reagenti in polvere che dopo aver depurato i fumi dagli inquinanti vengono rimossi nella fase di filtrazione su tessuto e smaltiti come rifiuti speciali (in quanto derivanti da un’attività di servizio e non dall’ambiente domestico) di tipo pericoloso (per il contenuto di inquinanti). 

Nella scheda realizzata dal produttore di un impianto di cremazione di ultima generazione (Ciroldi)  è specificato come siano “garantite concentrazioni degli inquinanti al di sotto dei limiti previsti dalle normative nazionali ed europee. L’impatto effettivo dell’impianto è in pratica equivalente ad una moderna caldaia a metano a servizio di condomini medio-piccoli. Non vi sono differenze di impatto ambientale tra forno acceso e forno spento neppure nelle immediate vicinanze dell’impianto. Nessun odore o fumo dal camino del crematorio, contrariamente a quanto avviene con il comune caminetto di casa, che produce fumi visibili e odori”.
A confermare i dati anche lo studio di un’azienda del settore ambientale (New consult ambiente) che ha realizzato una valutazione preliminare relativa all’installazione di un tempio crematorio, paragonando le emissioni a quelle di due impianti industriali di medie e piccole dimensioni e dimostrando l’impatto pressoché nullo (schema in figura).

UNA QUESTIONE RELIGIOSA… ED ECONOMICA
Dal 2016, anno del documento “Ad Resurgendum cum Christo” redatto dalla Congregazione per la dottrina della Fede e approvato da Papa Francesco in cui la Chiesa cattolica ribadiva il sì alla cremazione, “ma la sepoltura è la pratica preferibile e non è concessa la conservazione dell’urna in casa o la dispersione delle ceneri nella terra, in acqua o nell’aria” lo scorso dicembre è arrivato il via libera della Chiesa cattolica alla conservazione in casa, o in altro luogo gradito al defunto, delle ceneri di un famigliare. A stabilirlo il Dicastero per la dottrina della fede su quesiti sollevati dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi. Ciò è possibile, ha detto il Vaticano, “posto che venga escluso ogni tipo di equivoco panteista, naturalista o nichilista”. La Congregazione per la dottrina della fede ha chiarito, fermo restando il divieto assoluto a disperdere le ceneri dei propri defunti in natura, che è possibile istituite «un luogo sacro, definito e permanente, per l’accumulo commisto e la conservazione delle ceneri dei battezzati defunti, indicando per ciascuno i dati anagrafici per non disperdere la memoria nominale» e che nelle case dei familiari potrà essere conservata, ma non dispersa, una minima parte delle ceneri, cosa che finora era stata esclusa dalla Chiesa.
Zuppi a capo di una commissione di studio sulla crescente richiesta di cremazione, aveva affermato come che all’origine di questo fenomeno esistessero motivazioni di natura economica dietro all’elevato costo che i loculi e le tombe nei cimiteri hanno raggiunto; ovvio che la dispersione delle ceneri nella natura comportasse spese inferiori. Da qui, considerando il divieto canonico di dispersione, Zuppi proponeva l’individuazione di un luogo condiviso per la conservazione delle ceneri.
Ma quanto costa la cremazione? Oggi il servizio a Perugia costa 500 euro, cui si aggiungono quelle del funerale e del trasporto della bara; se il servizio fosse a Foligno per i residenti (come accade oggi per i perugini) coltrerebbe la metà, ovvero 250€. Le tombe ossari dove custodire le urne cinerarie sono di dimensioni minori rispetto ai loculi e in concessione per 99 anni costano fra i 3–400€ contro i 1500–3000 € dei comuni loculi.  

Il BamBirillo

Il Birillo è un idolo pagano di Foligno, da quando fu enunciato l’oracolo per cui il birillo centrale del biliardo centrale del “Gran Caffè Sassovivo”, da cui trae il nome questa testata, sarebbe “lu centru de lu munnu”.

Un oracolo quanto mai enigmatico. Se infatti per “munnu” si intendesse l’Universo, significherebbe che questo sarebbe misurabile e dunque non sarebbe infinito. Se invece per “munnu” si intendesse il pianeta Terra, significherebbe o che il Birillo si troverebbe nel nucleo o che la Terra sarebbe piatta. Fate voi.

Di questo idolo pagano, a ben guardare, si possono intravedere contaminazioni anche nel sacro.

In una rappresentazione natalizia molto stilizzata, che a quaresima inoltrata, come consuetudine, continua ad essere ancora esposta sulle mura di una Pieve, è possibile infatti riconoscere come la simbologia o la figurazione del “Bambinello” sembri conformata alla sagoma del Birillo pagano.

Una commistione iconografica che potrebbe evocare una entità sacro-profana tutta nuova: il BamBirillo.

 

Duo pianistico Taverna Vacatello – Amici della Musica

Foligno, 2/3/2024, Auditorium di San Domenico. Amici della Musica di Foligno. Concerto di inaugurazione della stagione concertistica 2024. Alessandra Taverna e Mariangela Vacatello, duo pianistico.

TardaViaggio Foligno – Febbraio 2024

Al museo con penalità

Volevo fare la Foligno Card, che consente ai cittadini residenti l’accesso libero e gratuito ai musei di Foligno, una iniziativa encomiabile. Mi sono rivolto allo sportello e mi è stato detto che occorreva la carta di identità, perché solo su questa è riportata la residenza, e la mia firma su un modulo per il consenso al trattamento dei dati. Avevo con me solo la patente e non ho potuto procedere.

Sono ritornato con la carta di identità, l’ho consegnata allo sportello mentre mi veniva consegnato il modulo da compilare e firmare.

Appena poggiata la penna sul foglio per scrivere nome e cognome, mi sono reso conto dell’assurdità di quanto stavo facendo: avrei dovuto dichiarare sotto responsabilità penale le mie generalità, le stesse riportate nella carta di identità da me consegnata e della quale sarebbe stata allegata la fotocopia al modulo compilato.

Praticamente mi si chiedeva di auto certificare sotto responsabilità penale quanto già certificato dal Comune di Foligno e dal Ministero dell’Interno con l’emissione del documento e che da me sarebbe stato semplicemente trascritto. Un fulgido esempio di perversione burocratica.

Ovviamente, da paladino delle questioni di principio, mi sono rifiutato di procedere oltre e, per il momento, rinuncio alla Foligno Card, almeno fino a quando gli scienziati comunali, che hanno concepito o avallato un cotale capolavoro di modulo, non siano rinsaviti e non ne abbiano prodotto uno diverso, che non sia un’offesa all’intelligenza delle persone.

Peraltro, di tale auto certificazione delle proprie generalità sotto responsabilità penale non si fa menzione nella pagina della Foligno Card (vedi) sul sito istituzionale del Comune di Foligno, dovi si parla solo di “acconsentire alla normativa privacy vigente” e questo non fa che rendere la richiesta ancora più assurda, oltre che ridicola.

Ma il colmo del ridicolo si raggiunge laddove è scritto che “la Card (…) su richiesta deve essere esibita unitamente al documento d’identità”.

Il che significa che, per evitare tutte queste contorsioni, basterebbe consentire l’accesso gratuito ai musei a chi esibisca banalmente la carta di identità che, per l’appunto, attesti la residenza a Foligno.  Ma quando mai? Come diceva quel mio compagno di università sud tirolese e di madrelingua tedesca, che zoppicava con la lingua italiana, sarebbe “troppo poco complicato”.

Dal “Faro” al faretto

Diego Fusaro si definisce “filosofo, allievo indipendente di Hegel e Marx, al di là di destra e sinistra, sempre controvento”. In un recente video su YouTube, nella sua rubrica “RadioAttività”, “Lampi del pensiero quotidiano”, sul canale di RadioRadio, dal titolo “Tutte le bugie della vicenda Navalny per chi vuole vedere oltre la propaganda”, afferma tra l’altro:

“Oltretutto, vedere ex comunisti schierati con Washington, con Israele e con Navalny, rappresenta una prova ulteriore della metamorfosi kafkiana del vecchio e nobile comunismo divenuto oggi un deplorevole presepe di pentiti, rinnegati, persi sulla via di Damasco, e cultori delle proprie catene, uno scenario davvero deprimente”.

Senza entrare nel merito degli antefatti, mi affido come solito alle immagini. Nella fattispecie, le immagini esterne di quella che fu la sede della sezione di Belfiore del PCI (Partito Comunista Italiano), poi PDS (Partito Democratico della Sinistra), poi DS (Democratici di Sinistra) e di quella stessa che, oggi, è la sede di un “circolo” del PD (Partito Democratico).

Nel 2001, in un articolo sulla Gazzetta di Foligno, dal titolo RICOSTRUZIONE PESANTE, usai una foto in cui, dalle impalcature di un cantiere post sisma del 1997, in epoca PDS (il partito della Quercia), traspariva ancora lo storico simbolo del Partito Comunista Italiano, con la sigla PCI su banda tricolore, falce e martello incrociati e la stella.

Non saprei dire quanti anni dopo, quel simbolo è stato rimosso mentre oggi, non saprei dire da quando (stando a Google Maps, c’era già ad agosto 2011), sopra la stessa porta di ingresso c’è un normale punto luce per l’esterno.

Una parodia di come siano mutati i tempi. Una volta “il faro” che guidava il “partito” era l’ideologia, a servizio dei lavoratori, contadini ed operai, con i suoi simboli. Oggi, al posto del simbolo comunista per eccellenza, la falce e martello, e di ciò che idealmente rappresentava, c’è un banale faretto a LED.

Dal “faro” al faretto: come dice Fusaro, una bella “metamorfosi”.

Il Terzo Stato

La professoressa Falconi, che non era l’ultima arrivata, ci aveva inculcato un principio. Diceva che la comunità democratica è eminentemente irreligiosa perché pretende che la vita del cittadino domini ogni altro valore. Lì per lì non capii bene cosa intendesse dire quell’indomita anima liberale, ma ce lo diceva così spesso che il ritornello lo imparai quasi a memoria. Giuseppina Falconi guardava storto Don Giuseppe Cavaterra, insegnate non solo di religione. Lui la pensava al contrario e ci ammoniva che il concetto di libertà era solo quello di una religione che ha coscienza di sé come espressione terrena di Dio. Contraddirli non conveniva a nessuno, perché se la prima t’affibbiava insufficienze a raffica, il secondo ti riempiva di sberle minacciandoti di non aiutarti nei consigli di classe. Non faccio mistero del fatto che delle spintarelle di Don Peppe (“caldi”, “sambi”: il prete baccagliava spigliatamente il gergo di strada) me ne sono avvalso per tutto il liceo, mentre l’ostile professoressa me la sono trovata sempre dalla parte sbagliata. Mi chiamava impietosamente “pezzo d’asino”, “osso buco” (un po’ come fa Sgarbi con le sue capre designate) salvo poi vedermela arrivare a studio, una volta laureato, per recuperare certi creditucci vantati nei confronti delle studentesse morose a cui la mattina faceva lezione tra i banchi e il pomeriggio ripetizione a casa.  

Sono stato educato da mio padre al ferreo rispetto dei principi religiosi, che lui celatamente violava. Forse per aver compreso che la religione non deve risolversi nel concetto di una assoluta invadenza della Chiesa, in un asservimento in lei di tutte le funzioni sociali. Benché Don Giuseppe si fosse applicato molto per erudirmi non ho mai imparato a distinguere le tonache dalle tuniche e i ministri dai ministranti. Invece alla Falconi bastarono un paio di “pezzo d’asino ti boccio” perché imparassi il prorompente significato di “Terzo Stato” e di quanto questo si risolse nelle ragioni della Rivoluzione Francese. Lo riferisco per dare una sostanza ideologica al mio percorso esistenziale, per rimarcare quanto dolga quando s’è giovani l’esercizio martellante dell’autorità, da ovunque esso provenga. Perché, alla fin fine, chi non ha signore è signore egli stesso. 

27.2.2024

giovanni.picuti@alice.it

Orte-Falconara, un binario… singolo o matrimoniale?

Riceviamo da Nazzareno Monachesi e volentieri pubblichiamo.

E’ da molto prima del terremoto del ’97 che si discute sul progetto di potenziare il collegamento passeggeri tra le regioni tirreniche e adriatiche realizzando un itinerario merci alternativo per i collegamenti nord-sud sul tracciato ferroviario di una linea storica, come la Orte Falconara.

Lo stesso PRG/97 del nostro Comune, tuttora vigente, indicava e vincolava i terreni attraversati dal nuovo doppio binario, in special modo al nord della città.

Il raddoppio dei binari nel nostro territorio, è iniziato, in parte, proprio negli anni 90, circa 30 anni fa.

Infatti, sulla Foligno-Trevi-Campello il nuovo doppio binario è attivo da tempo, mentre da Campello a Spoleto, una serie di vicissitudini, hanno portato ad allungare i tempi dei lavori tanto da non essere ancora terminati.

Poi, è arrivato il 2020. Anche se frastornati dalla pandemia, non passò inosservato, tra le tante dichiarazioni dell’allora Presidente del Consiglio, quell’accenno all’Alta Velocità della tratta Roma-Ancona, indicandola tra le priorità nel piano di rilancio per l’Italia.

C’erano molti documenti che iniziavano a dare sostanza a quelle dichiarazioni come l’allegato al DEF del 2020 e come il Piano delle infrastrutture e dei trasporti per un’Italia ad Alta velocità chiamato #italiaveloce.

Inutile dire che tale prospettiva rappresentava un’occasione unica, sia per superare l’isolamento della regione, sia per dare prospettive di sviluppo.

Poi, nei primi giorni del 2021, è arrivata l’approvazione del PNRR da parte dell’Europa. E, tra i tanti investimenti relativi alle infrastrutture c’era anche quello relativo alle cosiddette “connessioni diagonali” con alcuni interventi da realizzare sulla direttrice umbro-marchigiana. Praticamente, solo gli interventi realizzabili entro il 2026, fermo restando che l’obiettivo del piano #italiaveloce sarebbe rimasto tale.

Va ricordato che, per gli interventi finanziati con i fondi del PNRR, la Regione Marche si è subito attivata sulle tratte di propria competenza.

In Umbria, invece, per colpa degli “appetiti” di questo o quel territorio, si è ancora in fase di ipotesi e di progetti da elaborare.

Quante volte si è letto di politici regionali, amministratori, comitati e associazioni locali che volevano spostare il nuovo tracciato più a ridosso del capoluogo di regione e dell’aeroporto di San Francesco, tagliando fuori tutta la zona appenninica e spostando, di conseguenza il nodo tra le reti più a nord?

Tra le tante ipotesi, ricordo anche quella di utilizzare la ex FCU nella tratta Perugia Terni e verso Gubbio e Fossato. Un po’ come è successo con la Flaminia…

Comunque, sulla spinta di tali “appetiti” nel 2021, la Giunta Regionale ha chiesto a RFI di valutare tecnicamente la possibile deviazione rispetto al tracciato storico.

Il parere negativo di RFI avrà messo definitivamente fine alle diatribe tra territori? .Di sicuro, come sosteneva il sindaco di Gualdo Tadino in un comunicato, tali ipotesi infondate hanno allungato i tempi e, nel frattempo, nessun nuovo progetto ha preso il via.

A peggiorare il tutto, è arrivata, nell’agosto scorso, anche la decisione del Ministro delle Infrastrutture e Trasporti di stornare molti dei fondi del PNRR destinati alle “connessioni diagonali” tra le quali la Orte Falconara, per destinarli verso altri investimenti. Per la nostra linea, solo qualche briciola in terra marchigiana, come si legge dagli ultimi articoli apparsi sui quotidiani locali, ma nulla più.

Eppure, gli amministratori locali si sono esaltati alla recente visita del Ministro. Esaltati per cosa? Per altre promesse? Dove sono i progetti, i cantieri attivi?

Fermo restando la Spoleto Campello che, nonostante i suoi tempi “giubilari”, è prossima alla messa in esercizio, si parla di progettare finalmente il raddoppio della Terni Spoleto. Un progetto, però, da ri-finanziare di nuovo, visto che i fondi destinati all’epoca sono insufficienti (nota della FIT CISL). Mentre, per la Foligno Fabriano, fermo restando il vecchio tracciato confermato da RFI, ancora è tutto nel libro dei sogni.

Intanto, però, gli investimenti per ripristinare la ex FCU vanno avanti a spron battuto… Forse, qualche fantasia sta cercando di realizzarsi?

Un dubbio da cancellare subito, visto che l’assessore regionale ha detto che sulla Orte Falconara, va tutto come previsto. Sì, perché, durante il lungo fermo della linea per lavori di messa in sicurezza in quel di Giuncano, installeranno il nuovo sistema ERTMS!

Ma ERTMS (European Rail Traffic Management System) è solo un moderno sistema tecnologico per gestire il traffico e che fornisce al macchinista tutte le informazioni necessarie per una guida strumentale, controllando con continuità gli effetti del suo operato sulla sicurezza della marcia del treno e attivando la frenatura d’urgenza nel caso di velocità del treno superiore a quella massima ammessa per la sicurezza.

Va ricordato che tale sistema è stato già installato su molte tratte delle reti ferroviarie italiane, anche su quelle secondarie, su quelle in concessione e verrà esteso ovunque.

Già, ovunque e, pertanto, non è un privilegio per la nostra Orte Falconara e, come ricordava la FILT CGIL locale un paio di anni fa al sindaco e all’assessore regionale, ERTMS (non RMTS come erroneamente riportato nei loro comunicati di allora) non fa superare i limiti infrastrutturali che determinano la massima velocità di esercizio della rete.

Forse, si recupererà qualche minuto di percorrenza laddove le infrastrutture lo permettono?

Sì, può essere che, laddove c’è già il doppio binario, si potranno avere performance superiori, ma siamo lontani da quella Alta Velocità promessa dal Presidente del Consiglio nel 2020 e riportata nei trionfalistici comunicati stampa dei nostri amministratori locali!

Ma non può essere altrimenti, visto che, chi rappresenta l’Umbria, si esalta per una stazione AV a Creti, in terra toscana, raggiungibile solo con mezzi privati e a più di un’ora da Foligno, (traffico permettendo)! Praticamente, come il sentirsi sazio con il profumo dell’arrosto che arriva dal vicino di casa!

Una domanda, sarà ora di far suonare la sveglia e alzarsi dal letto, oppure ci si rigira dall’altra parte e si continua nel lungo letargo?

Nazzareno Monachesi

Zefiro soffia e il bel parco richiude

A me dispiace sempre quando un albero viene abbattuto. Anni fa, al tempo della costruzione della novella scuola di via dei Molini, smossi mari e monti (bhè via: stagni e collinette) per salvare tigli e cedri del giardino, salvo poi cantarne funereo canto in pagine gazzettiere irrevocabilmente trascorse. Ma lì c’era l’opera da rinnovare per novelli germogli d’ingegno. Ora invece, da qualche tempo per la verità, un furor securide sembra percorrere i viali cittadini e le strade in periferia. Il ticchettio di Igea la prosperosa sbarba e scocuzza; ma più spesso l’orrenda pernacchia di Atropo l’implacabile sega ed abbatte. Allo schianto di un albero avete mai posto orecchio? Quando cade a moncone o ceppaia, la terra ridà un tonfo attutito. Io penso che la terra si ritiri per rispetto, per accogliere al volo quei pezzi di vita, quei frammenti di dialoghi finiti anche loro, irrevocabilmente. La segatura come uno sparso alfabeto. Se invece l’albero perde i sensi per tacca profonda, lo schianto ha un suono d’orrore, uno stacco che incute timore e vergogna.

Novembre 2017. Pioppo prima della fucilazione. Località Casone. Foto dell’autore.

 La nostra è una città ventosa, è questo il busillis. A guardare i pini dei Canapè s’intuisce quali traiettorie eoliche siano e siano state le più frequentate. Non si tolse la sghizzona dalla piazza perché Borea se la spassava a spruzzare i passanti? Ora che Chione gira al largo, scarrozzano comunque venti da un quadrante (caldo) a un altro, ma non più di un tempo, quanto a rabbia. E allora pagano gli alberi, che nel frattempo fra scirocchi e tramontane sono venuti su e se cadono rami o cedono tronchi è colpa loro. Per questo, forse, lungo lo stradone di Casevecchie, lato Casone, la fila dei pioppi è stata fucilata senza pietà; non restano che monconi rasoterra sui quali rara trascorre la lucertola assolata e, intorno, gemme avventizie destinate alla voragine scura dei decespugliatori. Un inesistente e concreto muro del pianto per la gioia delle abominevoli nutrie: cucù – ridacchiano – cucù il pioppo non c’è più! Raccapricciante progenie del demonio.

Ma anche in città; non solo fuor per le campagne amare. Anche in città la trombetta molesta è passata a pareggiare tutte l’erbe del prato: tutte quelle che potevano toglierci un pensiero, pioppi neri, pioppi cipressini, acacie dai grappoli inebrianti, abeti sopravvissuti ai pandori, cipressi vari e pini domestici, ce l’hanno tolto quel pensiero, alle nostre capocce e alle capote delle nostre torpedo. Io che, è noto, non amo né animali razionali né animali tout court, ma amo gli alberi, ho cercato di essere presente al trapasso di queste bibbie: lo sapete che il pino, mentre muore, profuma di più? Paga colpe non sue, ma invece di accusare (io direi: Satana vi spolpi! Vi mastichi, vi risputi e vi rimastichi!), muore col sorriso del suo profumo irripetibile.

foto dell’autore

I tigli sono salvi, al momento; scotennati ma salvi. La cupola non ce l’avremo per un bel po’, ammesso che torni prima o poi. Ora a sfociare nell’azzurro non sono più gli innumerevoli frattali che s’immillano, ma nere trame da secondo girone del settimo cerchio, cesure e mozziconi tetri. E’ probabile che sia io, disadattato, a vederla così; tutti i dayaki che ho sentito, dal viale della stazione, a viale Marconi a via Chiavellati, mi hanno detto che sì, si fa così, l’albero si rinforza e che tutti quelli abbattuti hanno usufruito di eutanasia. Allora, più tranquillo, vo ai Canapè, la mia minuscola Galatea, ma zefiro soffia e il parco, scocuzzato, messo in piega, rinforzato, riparato e ripiantumato, chiude. Ma se i dayaki sono passati anche qui e hanno fatto tutto per bene, perché il parco chiude? Nemmeno il giardino dell’Eden!

foto dell’autore

Il dottore dell’Eredità Daniele Alesini: “Foligno è nel mio cuore”

Il dottor Daniele Alesini campione dell’Eredità è diventato un personaggio televisivo amato da tutta l’Italia. Non solo per la sua preparazione che gli ha permesso di accumulare una vincita di 285 mila euro ma anche per la sua simpatia. La platea televisiva, quando ha deciso di lasciare la trasmissione di fronte ad uno sbigottito e commosso Marco Liorni, dicendo “devo tornare dai miei pazienti”, si è alzata in piedi tributandogli un lungo applauso. Il folignate Daniele è un oncologo e, lasciati gli accattivanti riflettori, è tornato alla sua mission. Salvare vite. Come ha fatto il papà Andrea, morto giovanissimo, che ha dedicato tutta la sua vita al servizio sanitario nazionale di cui è stato protagonista in prima linea, partigiano contro le baronie e le storture, e studioso di nuove metodologie che hanno avuto applicazione. Uno dei più grandi ospedali di Roma porta il suo nome e anche la sala convegni dell’ospedale di Foligno di cui è stato anche direttore sanitario si chiama Andrea Alesini.

Dottor Daniele, un’Eredità televisiva e un’Eredità da portare avanti come medico. Come concilia le  due cose?

La partecipazione all’Eredità è stata una bellissima esperienza sotto vari punti di vista: mi ha permesso di muovermi al di fuori della mia comfort zone (e di questo sono infinitamente grato a mia moglie che mi ha spinto a farlo), mi ha fatto incontrare tantissime, splendide persone sia fra i concorrenti che si sono succeduti sia fra i numerosi professionisti della Rai e della Banijay che hanno creato un ambiente straordinariamente sereno ed accogliente, ricordandoci in ogni momento che dovevamo soprattutto divertirci! Mi è dispiaciuto lasciare questa seconda vita (per quanto breve sia stata!) tuttavia l’ho fatto con la consapevolezza che era il momento di ritornare al mio lavoro che amo moltissimo e che avevo messo in pausa.

Veniamo a Foligno, la città dove  è nato. Che ricordi ha, che scuola ha frequentato? Ricorda qualche amichetto di classe o qualche amichetta? E qualche insegnante?

Foligno è una città che ho nel cuore e che farà sempre parte di me. Sono andato via nel 1994 quando avevo 9 anni pertanto i ricordi della mia vita lì sono piuttosto frammentari e sfumati. Ho frequentato la scuola Elementare Mameli a Foligno; ricordo il nome delle mie Maestre di allora: Giuseppina, Morena ed Enza (Birzò, se non sbaglio…una maestra affettuosa e dolce, di cui ricordo ancora la grafia elegante, le mani morbide e il profumo). Ricordo ancora il giorno, alla fine della terza elementare, quando ho dovuto salutare i miei compagni di classe: che pianti! Anche perché nel 1994 cellulari, mail non erano neanche all’orizzonte e per un bambino di 9 anni è decisamente complicato mantenere contatti con i suoi amici lontani. Molti anni dopo sono riuscito a riprendere i contatti con alcuni compagni (Matteo Alessandra, Alessandro Baldaccini e Cristiano Floridi) grazie soprattutto ai Social Network. 

Ma torna a Foligno?

A Foligno torniamo ancora spesso perché abbiamo casa; uno dei momenti più belli che io e la mia famiglia aspettiamo tutto l’anno è la raccolta delle olive dai nostri alberi che ci permette di ritrovarci tutti insieme (mia madre e noi cinque fratelli con le nostre famiglie) sotto lo stesso tetto: è una tradizione che amiamo moltissimo.

Sicuramente una parte importante per l’affetto che provo per Foligno e per l’Umbria in generale è dovuta al fatto che, quando sono qui, ho l’impressione di sentire ancora più forte e concreto il ricordo di mio papà che ha adorato questa terra tanto da voler essere sepolto a Spello. Ho l’impressione che quasi tutti i ricordi che ho di lui siano legati principalmente all’Umbria e per questo amiamo così tanto tornarci.

Poi la vita romana, è stata naturale la sua scelta di fare il medico oppure ha voluto seguire le orme di papà e mamma?

Da quando ho memoria, ho sempre voluto fare il medico; ricordo che quando ancora vivevamo in Umbria, chiesi ai miei genitori di comprarmi la meravigliosa collana di Esplorando il Corpo Umano e mi ricordo la gioia nel costruire il modellino del corpo umano con i polmoni, il cuore di due colori, la scatola cranica con il cervello all’interno: bellissimo!

Lei è sposato e ha tre figli. Anche sua moglie è medico?

Sono sposato con Maristella da quasi 11 anni; lei è Pediatra e lavora nel mio stesso Ospedale. Ci siamo conosciuti all’Università. Abbiamo 3 figli: Nicolò di 9 anni, Alice di 6 e Olivia di 2.

Torniamo in Tv. Lei è stato il beniamino della trasmissione L’Eredità. E vincita a parte è entrato nel cuore degli italiani. Che effetto le fa? E i suoi colleghi e pazienti che le hanno detto quando è tornato in ospedale?

 Per mia natura sono piuttosto schivo, non amo essere al centro dell’attenzione (per questo ho sempre adorato di essere nato in piena estate: nessuna festa di compleanno con decine di persone che ti guardano scartare i regali…) però ammetto che, quando capita che per strada qualcuno mi saluta perché mi riconosce, mi fa molto piacere anche perché spesso lo fanno chiamandomi il dottore dell’Eredità ed è un nomignolo che mi piace perché il qualche modo unisce queste mie due vite: la Medicina e questa parentesi televisiva. Anche i miei pazienti hanno spesso sollevato questa questione; sono stati tutti estremamente gentili e supportivi; qualcuno però mi dice che è contento che ho lasciato perché così sono tornato al lavoro. I miei colleghi sono stati splendidi e non finirò mai di ringraziarli perché mi hanno dato la possibilità di assentarmi dal lavoro non per motivi familiari o di salute ma solo per una questione puramente ludica: sono stati veramente disponibilissimi quindi… Grazie infinite a Umberto, Valentina, Giusi, Simonetta, Paola e Daniela.

Le va di tornare a prendere un caffè con gli amici del Gran Caffè Sassovivo ?

Verrò volentieri a prendere un caffè con voi!

Se i cantanti non possono fare politica, allora i politici non possono cantare

“Gli artisti dovrebbero salire sul palco, fare la loro bella esibizione e andarsene. Sarebbe utile pensare a una sorta di daspo per chi utilizza quel palco per fini diversi da quelli della musica. Un artista lì fa musica, non fa politica”. Il virgolettato appartiene al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il leghista Alessandro Morelli, in riferimento a Ghali e Dargen D’Amico che, in momenti diversi di Sanremo, hanno rispettivamente chiesto di fermare il genocidio e il cessate il fuoco. La dichiarazione di Morelli è dirompente e ha già scatenato da giorni le reazioni dell’opposizione politica, dei cantanti e degli artisti in generale. Eppure, immaginiamo di ragionare per assurdo e accettare che esista un mondo dove i cantanti non fanno politica. Dove le canzoni si limitano a parlare di rose, fiori, amore; che poi – in senso lato – anche questo potrebbe essere considerato fare politica: Ilona Staller, in arte Cicciolina, e Moana Pozzi nel 1991 fondarono il Partito dell’Amore.

 

Comunque, se questo mondo effettivamente esistesse allora si andrebbero a creare due scenari: Il primo, in cui i cantanti non farebbero politica, ma i politici – come in effetti succede – sarebbero liberi di cantare, canticchiare, fischiettare, ballare sia con le stelle che sotto le stelle, dipingere, farsi dipingere, scrivere libri, pubblicizzare libri, vendere libri; oppure non leggerli affatto come fa il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Se pensiamo al connubio musica-politica, come poter dimenticare l’hit lanciata da Forza Italia per l’omonimo inno? Un evergreen sin dal principio che avrebbe spopolato oggi più che mai con i balletti su TikTok. Restando in tema, Berlusconi fu il politico-cantante per eccellenza (forse più showman che cantante), un degno rivale del miglior Fiorello: qui canta addirittura in francese, ça va sans dire (“ma che ve lo dico a fa”).

Il secondo scenario, invece, è l’universo parallelo creato dalla dichiarazione di Morelli in cui i cantanti non politicano e i politici, però, non cantano. Ma non solo non cantano, intendiamoci: non si occupano nemmeno di tutte le altre cose che non rientrano nella politica tout-court. Non fanno jogging per esempio, non fanno pilates, fanno la spesa – ma lo stretto necessario alla sopravvivenza, niente avocadi -, non aggiustano il lavandino che perde perché per quello c’è l’idraulico (gli ruberebbero il mestiere). In tale distopia generata dalle dichiarazioni del Sottosegretario Morelli, ognuno si occuperebbe solo e strettamente del proprio ambito professionale: i meccanici riparerebbero le auto senza guidarle, guai agli insegnanti di inglese a non parlare in lingua anglofona! E i politici…beh, qualcosa da fare gliela troveremmo.

Come si può pensare di recintare la musica separandola da ciò che le accade intorno? Allo stesso modo, dato che la politica abbraccia ogni settore della società, si farebbe peccato mortale a impedire a Salvini di vestirsi da carabiniere, finanziere, poliziotto, vigile del fuoco, macellaio, parmigiano reggiano, trattore e chi più ne ha più ne metta.

O No?

Vota Romolo

Romolo Raschi, ingegnere, fascista, nato nel 1887, deputato dal 1924 al 1929 e dal 1929 al 1934, fu il primo dei tre podestà di Foligno, dal 1927 al 1934.  Le notizie su di lui, in rete, sono molto scarne e le biografie non vanno oltre la vicenda che pose fine alla sua attività politica.

Così Wikipedia conclude la pagina che lo riguarda:

 “Nel 1934 cade in disgrazia a causa delle accuse di concussione, corruzione, frode e richiesta di tangenti per appalti, per le quali è condannato al confino a Cava dei Tirreni.”

Analogamente, così conclude la sua biografia il “dizionario biografico multimediale dei parlamentari umbri dall’Unità alla Costituzione”:

“Accusato di concussione, corruzione, frode e richiesta di tangenti per appalti, nel 1934 fu condannato al confino a Cava dei Tirreni. Morì il 23 novembre 1979.”

Il sito WikiFoligno, invece, almeno fin quando la pagina relativa ai Sindaci e ai Podestà di Foligno è rimasta consultabile, spaziava ben oltre la vicenda del 1934 e si concludeva così:

“In seguito l’ing. Romolo Raschi partì volontario per l’Africa orientale sia per riabilitare meglio la propria personalità, sia per avere un campo tutto nuovo di lavoro. In realtà l’ing. Raschi svolse a lungo la sua attività professionale che fu apprezzata dalle autorità e dalla popolazione della regione. Giudizi positivi ci sono stati espressi anche da chi non condivideva la posizione ideologica dell’ing. Raschi. Romolo Raschi che era nato a Spello nel 1888, è morto il 23 novembre 1979. La sua morte passò quasi in silenzio; ormai pochi erano coloro che ricordavano l’onorevole ed il Podestà. A distanza di tempo, quando ormai le passioni politiche e personali si sono calmate, l’attività podestarile dell’On. Ing. Romolo Raschi va giudicata sostanzialmente positiva. Egli dimostrò di avere a cuore le sorti della città e si impegnò con notevole passione, ottenendo risultati validi. Va tenuto presente che alle difficoltà oggettive dell’amministrazione comunale dovette aggiungere l’opposizione non sempre leale di alcuni gerarchi.”

attingendo in modo pressoché integrale da quanto pubblicato nell’opuscolo “I Podestà di Foligno”, edito nel luglio 1987, dal professor Nazzareno Proietti, per molti anni collaboratore della Gazzetta di Foligno, raccogliendo presumibilmente articoli che vi furono già pubblicati (ma che non sono ancora riuscito ad individuare).

Sul perché questa narrazione, con le altre dello stesso autore, non siano più disponibili in rete, si può anche fare dietrologia politica. Sta di fatto che tale biografia resta disponibile solo per quei pochi che abbiano la possibilità di consultare la stampa su carta degli scritti del professor Nazzareno Proietti.

Cosa resta a Foligno, oggi, di visibile, che riguardi il Podestà e l’Ingegnere Romolo Raschi? Di ufficiale, forse, probabilmente, nulla.

A guardarsi bene attorno, tuttavia, una traccia la si può reperire in quella che doveva essere una campagna elettorale, una sbiadita scritta su un muro sbiadito che, più o meno, così recita: ELEZIONI VOTA PER RASCHI. Una scritta che, decennio più, decennio meno, è passata indenne ad un periodo di circa un secolo.

Mi rendo conto che, in tal modo, pur se focalizzata e decontestualizzata, potrei decretarne la cancellazione da parte di quelli che, sopprimendo i segni ed i simboli, si illudono di cancellare anche la Storia. Certo è che, se per circa ottanta anni, dalla fine della guerra, non se ne sono accorti, la brutta figura l’hanno già fatta e non sarà facendo sparire solo oggi questa scritta che potranno porvi rimedio.

 

Badanti e Badati

Siamo tutti “europeisti”, orgogliosi della Costituzione “più bella del mondo”, fieri dei valori occidentali di libertà, salvo che, al momento opportuno, siamo pronti a rinnegarlo e consentire, o peggio, a fare in modo che quei principi e quei valori vengano calpestati.

La Costituzione Italiana, all’articolo 33, così recita:

“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.

come pure, all’articolo 21:

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, all’articolo 11, così recita:

“Libertà di espressione e d’informazione – 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. 2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati”.

Una formulazione, quella “europea”, più estensiva di quella dell’articolo 21 della nostra Costituzione, perché tutela espressamente la libertà di ricevere informazioni senza ingerenza alcuna.

In questi giorni stiamo assistendo al tentativo di impedire la proiezione di un film che ha per tema il conflitto in corso in Ucraina, con la motivazione che si tratta di propaganda russa, a cui non deve essere data voce. Dov’è la libertà dell’arte? Dov’è la libertà di ricevere informazioni?

Ammesso che di propaganda si tratti, siamo davvero sicuri che le fonti “occidentali” non siano, parimenti, a loro volta, fonti di propaganda che si vuole imporre come verità dogmatica?

A questo proposito vale la pena citare, come caso eclatante ed emblematico, la versione “occidentale” secondo cui la causa della morte in un carcere russo di Alexei Navalny (colui che è stato eletto a rango di eroe dell’opposizione a Putin) sarebbe avvenuta per detenzioni disumane o per un “pugno al cuore”, ovvero che si sia trattato di una esecuzione capitale. Ebbene, il capo dei servizi segreti ucraini in persona, Kirill Budanov, ovvero una fonte istituzionale della parte che l’occidente difende, ha dichiarato che la morte di Navalny è avvenuta per un coagulo di sangue, ovvero si è trattato di morte naturale, confermando la versione “propagandistica” di Mosca e smentendo così la “verità” dell’occidente.

Pare che, oltre alla comunità ucraina, si sia mossa persino l’ambasciata in Italia di quello stesso Stato che all’Unione Europea, compresi i suoi princìpi, ha chiesto di recente l’adesione. Di cosa hanno paura? Che le persone possano farsi una loro opinione confrontando i diversi punti di vista, come è loro diritto?

Non da meno è l’arrampicamento sugli specchi di chi contesta il Patrocinio concesso dal Comune di Foligno, convinti che il patrocinio consista in una adesione ideologica ai contenuti dell’iniziativa. Non si sono curati di andarsi a leggere, sul sito comunale, che:

“Con la Concessione del Patrocinio, che viene deliberato dalla Giunta comunale, l’amministrazione esprime il proprio consenso, ritenendo l’iniziativa meritevole di supporto per fini d’interesse pubblico”.

o comunque contestano che sia un interesse pubblico diffondere l’arte e favorire la conoscenza ed il confronto tra le diverse fonti di informazione. Sarebbe come se, patrocinando la presentazione del libro “L’Esercito di Dio”, si volesse far intendere che il Comune di Foligno abbia voluto sostenere l’idea della costituzione di una forza armata di ispirazione religiosa.

Eppure siamo nella Città “Dantesca” e ci piace citare quel motto che così recita: “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”. La conoscenza, però, sarebbe solo quella che fa comodo, o peggio, quella che viene imposta.

Ricordo che, un paio di anni fa, ci fu l’insurrezione della comunità ucraina per una tipica locandina sboccacciata del “Vernacoliere”, mensile satirico di Livorno, che parlava dell’operato miracoloso di una “badante ucraina” (vedi), locandina che qualcuno, per quieto vivere, fu costretto a censurare.

Ecco come ci siamo ridotti, non abbiamo diritto a farci un’opinione propria, ma forse nemmeno una risata, abbiamo bisogno di badanti che ci imboccano le informazioni giuste. Siamo diventati tutti badati.

Film rouge

Non ho capito cosa avrebbe detto di sbagliato il sindaco riguardo alla programmazione del lungometraggio Il testimone del georgiano David Dadunashvili: un film diretto da un russo, interpretato da un attore russo e sostenuto dal Ministero russo della Cultura. Un lungometraggio russo russissimo, non belga, com’era stato presentato o come l’amministrazione torrina aveva capito che fosse e, con ogni probabilità, nemmeno tutto questo capolavoro: sostengono quelli che, pare, lo abbiano visto. Io non l’ho ancora visto e quindi non saprei commentare. Il sindaco, in sostanza, ha detto che lui il patrocinio non lo nega a nessuno, che in passato il Comune ha patrocinato cose ben più controverse e che, alla fine, codesto lungometraggio chi non lo vuole vedere non lo vede e chi invece lo vuol vedere ci va anche con diritto di critica. E ci mancherebbe altro. Sul sindaco e la sua amministrazione sono piovute critiche feroci, al punto da tirar giù Hannah Arendt per far le pulci a tanta leggerezza. A far la conta, sindaco e giunta avrebbero scarsa o nulla conoscenza della vera narrazione di questa guerra (già diventata quella da parecchio tempo, ma è un dettaglio. Il dettaglio non conta, non fa narrazione. Ora va di moda questa parola, narrazione), non sarebbero in grado, giunta e sindaco, di distinguere libertà di espressione da libertà di disinformare e, soprattutto, non hanno il diritto di porre i cittadini, meschini, nella scomoda posizione di dover scegliere tra fantascienza e verità (bello l’articolo di Diego Ghidotti su Standforukraine.it del 15 febbraio). In più il film è una schifezza. Tout court. E quindi?

 

Come e quindi: Bologna, Firenze e Viterbo, per esempio, hanno annullato le proiezioni. Bene, buon pro gli faccia. So, per consuetudine in riva all’Arno, che il Teatro dell’Affratellamento, nelle parole del consiglio direttivo, ha accolto “la gentile esortazione del sindaco di Firenze” a rinunciare, e si è rinunciato. E quindi? Io vorrei chiedere a chi insorge se si possa imporre a un cittadino di non andare a vedere un film discusso, discutibile e propagandistico (perché lo è, no?) se si possa, condannando una dittatura, assumerne la stessa tracotanza e la medesima logica di imposizione. Puoi chiedere all’amministrazione di non concedere il suo patrocinio, proferendo apertamente che per te sarebbe preferibile trasmettere il lungometraggio in un cinema, o dove ti pare, ma non in una sala pubblica: a Bologna l’amministrazione comunale ha dichiarato inaccettabile utilizzare una sede istituzionale. Ottimo (poi però ha aggiunto il complemento di fine per attività di propaganda. Magari il film non l’hanno visto, ma sono kantiani. A priori). Puoi chiedere quello che vuoi, ma non puoi venirmi a prendere da mentecatto dicendo che non devo essere messo nella condizione di scegliere tra verità e bugia, perché così tu mi stai imponendo la tua verità e la tua narrazione, che tra l’altro è un’offesa perché le guerre non si narrano, si vincono o si perdono, ma non si narrano, se no succede come sta succedendo ora, che quella guerra passa nell’appeasement, una specialità gradita a tutti gli zar, di ieri e di oggi.

immagine: vivoumbria.it

Le imposizioni sono tutte brutte, ma più brutte ancora sono le imposizioni democratiche, che travalicano l’intelligenza e offendono il buon senso. Io lo voglio vedere il film, o lungometraggio che sia, e poi io valuterò e deciderò; anche se è una schifezza, perché finché non lo vedo è un capolavoro e una schifezza, è tutte e due le cose, non o una o l’altra, ma tutte e due le cose allo stesso tempo. Per diventare o l’una o l’altra lo devo vedere e del pre-giudizio altrui me ne infischio. Mi dispiace che la comunità ucraina abbia reagito male e senz’altro comprendo il suo punto di vista. Non mi piacciono però i suoi toni, affidati al comunicato Ansa del 14 febbraio, con i quali si comanda all’amministrazione torrina di prendere immediatamente le distanze dall’evento. Uno può dire: nel comunicato Ansa c’è scritto prenda, congiuntivo esortativo. Non lo è; non è un congiuntivo esortativo. E’ un insopportabile imperativo, insopportabile come possono esserlo tutte le presunzioni con cui un pensiero pretende sempre di essere migliore di un altro.

 

Medoro e la curva “aperta”

A proposito di “Sua Eccellenza” Medoro, di cui parla l’Avocatus Diaboli nel suo ultimo articolo.

Nella primavera 1984, alla guida della mia automobile, fui fermato dai Carabinieri del Nucleo Radiomobile di Foligno sulla SS 3, che all’epoca era ancora a due corsie, poco dopo l’ingresso di Sant’Eraclio, in direzione Spoleto, che mi contestarono di aver sorpassato un camion in zona di divieto.

Mi misi a discutere contestando l’addebito tanto che i Carabinieri, spazientiti, “annullarono” il verbale che avevano compilato riguardante l’infrazione contestata per redigerne uno ex novo in cui mi contestavano il sorpasso in curva, che all’epoca era reato, non conciliabile. Inutile fu recarmi al Comando del Nucleo Radiomobile per discuterne con il Comandante, trovai tutte le porte sbarrate.

Tempo dopo mi arrivò dalla Pretura, retta da Medoro, un decreto penale di condanna a una sanzione di centomila lire. Ovviamente feci opposizione.

Nella primavera del 1985 si svolse l’udienza davanti al Pretore, i Carabinieri in veste di testimoni negarono di aver “annullato” un verbale precedente, io insistetti lamentando che il secondo verbale era stato motivato dalla mie rimostranze, fu inutile portare delle foto della strada. Medoro infatti confermò la condanna, motivandola col fatto che dalle foto era evidente che il tratto di strada in questione era in curva, “sia pure aperta”.

Però non gli bastò, dovevo essere punito: Medoro rimise agli atti alla Procura presso il Tribunale di Perugia ipotizzando a mio carico l’accusa di calunnia a danno dei Carabinieri.

Ci volle il Tribunale di Perugia nel 1986 in grado di appello per sentenziare che una curva, per essere tale, deve avere limitata visibilità e che dunque una curva “sia pure aperta” non è una curva, come aveva sentenziato Medoro, evidentemente senza nemmeno aprire il Codice della Strada.

Dall’accusa di calunnia fui assolto solo nel 1994 in primo grado dal Tribunale di Perugia, essendo stata accertata l’evidenza di un verbale annullato, fatto che i Carabinieri in veste di testimoni continuarono a negare in udienza.

Per l’eccessiva durata del procedimento (praticamente 9 anni) feci ricorso alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo che, nel 1998, mi riconobbe vittima di violazione della “Convenzione”, articolo 6 comma 1, e condannò l’Italia a risarcirmi un danno di 20 milioni.

Grazie,  Sua Eccellenza!

Sua Eccellenza

Seppur la città brillasse per le sue eccellenze, l’eccellenza per antonomasia risiedeva in colui che reggeva la Pretura conferendo lustro alla funzione giudiziaria. La sua autorevolezza suscitava sicurezza nei galantuomini e sgomento nei malintenzionati. «A chi tocca nun se ‘ngrugna» mormorava il popolino sentendosi parte integrante della giustizia di prossimità garantita dalla presenza sul territorio del sistema giudiziario (di cui l’intera comunità andava orgogliosa, sebbene talora ne fosse vittima).
Venne un giorno in cui la geografia uscì sconquassata dalla scienza del governo sicché molti tribunali conobbero la soppressione. Per fruire dei servizi i folignati dovettero raggiungere il foro di Spoleto, che a distanza di anni ancora percepiscono lontano. Il risultato pratico fu che non poterono più intimare all’avversario, all’aggressore o al lenone di turno: “Te porto davanti a Medoro. Al riguardo eccovi un aneddoto. Quando ancora eravamo agli inizi della professione forense, paludati nelle toghe non ancora sgualcite, con un mio collega ci disponemmo ossequiosi al cospetto di Sua Eccellenza. Io difendevo la vittima di un sinistro stradale e lui l’imputato di lesioni colpose. I litiganti s’azzuffarono sul pianerottolo (“m’hai scocciato come un fiasco” – “sei tu che m’hai tagliato la strada”) dopodiché, avvertendo il momento come di una gravità più unica che rara entrarono in aula in punta di piedi. Sii lenti e sii cauti sedettero dove trovarono posto. Quando venne il momento del testimone che aveva assistito all’incidente, Sua Eccellenza gli chiese: “Mi dica a quale distanza ha avvistato la macchina. Da me al Pubblico Ministero o da me a quel ragazzo là?” indicando il collega che a quel sentire scattò in piedi come una molla e disse: “Io sono un avvocato”. L’Eccellenza si fece paonazzo in volto, batté forte con un pugno sul banco e sentenziò: Silenzio!”. Fu così che il valoroso avversario “supin ricadde e più non parve fora”, tale e quale Cavalcante dei Cavalcanti (Inf. Canto X). 

15.2.2024 

giovanni.picuti@alice.it   

 

Scatta il Pontificale laico con i chierichetti della sinistra

Ora pro nobis. La sinistra va in confessionale e  trova la carta giusta per contrastare il centrodestra, l’astro nascente Presilla e il fuoco fatuo Finamonti. Così la scelta è caduta su Mauro Masciotti, capostazione Fs nella vita, direttore della Caritas locale con altri incarichi in quella ragionale e nazionale e anche Diacono. Mauro ci sta pensando e lunedì al massimo scioglierà la riserva. La felice pensata è stata proposta all’inizio della settimana ed ha avuto il consenso unanime di tutti i coalizzanti. Secondo alcune indiscrezioni i rappresentanti della sinistra italiana, per essere in linea con le tradizioni, si sarebbero iscritti ad un corso di chierichetti chiedendo in modo intransigente che la loro divisa avesse, però, due bande rosse verticali come segno distintivo. Pare che, in caso di vittoria, qualcuno abbia anche proposto di cambiare nome al massimo consesso cittadino. Invece di Consiglio comunale dovrebbe chiamarsi Pontificale laico.
Lo scranno più alto dove si proclamano i punti all’ordine del giorno sarà chiamato Ambone mentre il posto dei capigruppo di maggioranza verrà indicato come Pulpito. Al che la minoranza potrà finalmente dire “da che pulpito viene la predica”. Resta ancora da decidere come chiamare i componenti della Giunta perché il termine officianti non va proprio bene. Così fanno sapere i coristi delle Stelle. Dopo aver appreso la notizia sono andato a casa di Peppe de Tanilla per annunciare la lieta novella, ma mentre percorrevo il vialetto ho sentito una musica assordante. Appena aperta la porta ho visto Peppe che cantava a squarciagola “Solo una sana e consapevole libidine salva il popolo dallo stress e dall’Azione Cattolica”. Per omnia saecula saeculorum, amen.

Genuflessi ad ANAS

Sono ormai due anni che per i ciclisti vige il divieto di recarsi in sella da Foligno alla frazione di Pontecentesimo, e di qui proseguire oltre, verso la frazione di Capodacqua o verso il comune di Valtopina, e viceversa. Una vera e propria frontiera ciclabile, in barba al principio della continuità territoriale.

Questo a causa dei segnali di divieto di circolazione ai velocipedi collocati da ANAS (Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane) sulla SS 3 Flaminia dal km 154+600 al km 170+900, divieto che interessa anche il tratto di circa 1.500 metri tra il nuovo svincolo Profiamma Nord a quello di Pontecentesimo. Questo tratto della SS 3 costituisce l’unico tragitto possibile per collegare l’itinerario della vecchia Via Flaminia, salvo avventurarsi in altura, via Cupacci o via Ravignano, con quote, pendenze e dislivelli notevoli, oltre che fondo stradale sconnesso.

Un divieto che, per assurdo, vale per i ciclisti ma non per chi va a piedi, a cavallo, a dorso di mulo o in groppa ad un somaro. Un divieto che, pare certo, me lo disse proprio un geometra di ANAS, sia stato imbeccato da una innominata e non meglio identificata associazione ciclistica, che ovviamente si è guardata bene e si guarda bene dal palesarsi.

Il passaggio per la SS 3 Flaminia, dall’innesto della SP 449/2 in località Palazzaccio fino allo svincolo di Pontecentesimo, era comunque obbligato da sempre, sia pure per un tratto più breve, di circa 500 metri, prima che, nel contesto di un progetto di eliminazione degli incroci a raso sulla SS 3 a due corsie, il passaggio a livello ferroviario fosse soppresso da RFI (Rete Ferroviaria Italiana, Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane), e il tratto terminale della SP 449/2 fosse dismesso dalla Provincia di Perugia, sbarrato da ANAS il suo innesto sulla SS 3 con un cancello, e deviato con un nuovo tracciato verso il nuovo svincolo Profiamma Nord.

ANAS sostiene che i segnali di divieto esistessero già e che pertanto la collocazione di nuovi segnali, anche su tale tratto, fosse legittimata da esigenze di ripristino ove venuti a mancare. Peccato che su tali segnali di divieto, quando collocati da ANAS due anni fa, non fossero riportati gli estremi dell’ordinanza che li motivasse, il che, su istanza della FIAB di Perugia, ha reso necessaria da parte ANAS l’emanazione di una nuova ordinanza a sanatoria, perché evidentemente quella ipotetica precedente non era  reperibile o forse nemmeno esistente.

Comunque sia, ANAS nega che, in precedenza, sullo stesso tratto di SS 3, la circolazione dei velocipedi fosse prevista e consentita. Viene smentita da Google Maps, da cui è possibile rilevare, per il passato, dal 2008 al 2018, non solo l’assenza di segnali di divieto ma, soprattutto, la presenza di segnali di uscita obbligatoria per i velocipedi (vedi immagini in coda all’articolo) sia in prossimità dello svincolo di Pontecentesimo, in direzione nord, che dell’innesto della SP 449/2, in direzione sud.

La stessa ANAS di Perugia non ammette di essere contraddetta, tanto è vero che, avendo io chiesto di conoscere se il provvedimento adottato fosse basato sulla redazione di un documento di valutazione del rischio oppure, in difetto del quale, fosse stato preso “a recchia”, imbizzarrita dall’espressione dialettale, ritenuta oltraggiosa, mi ha diffidato dall’inviare ulteriori istanze, pena azioni giudiziarie nei miei riguardi, sia in sede civile che penale.

Il fatto che il transito ai velocipedi, in quel tratto, sia sempre stato consentito, lo conferma l’esistenza della “Ciclovia Bicitalia 8”, riconosciuta dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, il cui tragitto interessa proprio lo stesso tratto di SS 3 ora gravato dai divieti in conseguenza dei quali la “Ciclovia” stessa risulta così interrotta, senza che, alla fonte, il relativo tracciato sia stato aggiornato.

Domanda: sapevano ANAS, RFI, Provincia di Perugia, Regione Umbria, Comune di Foligno, a suo tempo, che i lavori da effettuare avrebbero interessato la “Ciclovia Bicitalia 8”? E se sapevano, esiste un atto che ne autorizza l’interruzione senza alternative? Nessuno ha mai risposto, non è dato sapere. Un personaggio del Ministero, competente in materia, da me interpellato telefonicamente, è arrivato a dire che se le ciclovie esistono sulla carta non è detto che debbano essere garantite nella realtà! Sul tema, la deputata folignate Elisabetta Piccolotti, nel dicembre 2022, ha presentato una interrogazione parlamentare al Ministro competente, senza che a tutt’oggi abbia ricevuto risposta.

Nel frattempo, cosa fanno le Istituzioni? Il Comune di Foligno è genuflesso ad ANAS e, non si cura lontanamente di chiedere che tali divieti vengano revocati in attesa di una soluzione strutturale, con la realizzazione di una variante che, al momento, non è ancora stata individuata e che, semmai, produrrà risultati quando in molti, tra i pedalatori, saranno già andati agli alberi pizzuti.

La Provincia di Perugia, ente proprietario del tratto terminale, ora dismesso, della SP 449/2, interessata dalla Ciclovia Bicitalia 8, che pure in una corrispondenza esibita nell’ambito di una interlocuzione, assicurava che il nuovo assetto viario “garantirà il livello di servizio esistente” (dimenticandosi dei velocipedi), declina ogni responsabilità. La Regione Umbria non si pronuncia, anche perché, come mi hanno sussurrato, in via informale, fonti strutturali all’apparato, la “Ciclovia Bicitalia 8” non l’ha tenuta a battesimo. Dal Ministero, dalla Prefettura, come pure dai Comuni di Valtopina, Nocera Umbra e Gualdo Tadino, interessati dal progetto di una ciclovia tra Foligno e Gualdo Tadino (una ciclovia nella ciclovia), nebbia fitta.

Unico segno di vita è pervenuto dal Provveditorato OOPP per l’Umbria del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, che ha chiesto alla Provincia di Perugia e al Comune di Foligno, in qualità di enti proprietari delle strade afferenti il tratto vietato, di apporre segnaletica di preavviso del divieto e indicazioni e di viabilità alternativa. Richiesta caduta nel vuoto da parte di entrambi, che d’altronde mica potevano indicare di passare da Cupacci o da Ravignano. Che figura ci farebbero?

Insomma, tutti se ne fregano e fanno gli indiani, col risultato che ad ANAS tutto è concesso, genuflessione completa. Sappiamo bene che, con il Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, tra cui la stessa ANAS, ci sono ben altri e più ampi interessi da coltivare e quindi non è il caso instaurare conflitti per queste facezie.

ANAS che, nel 2019,  “ha aperto al transito degli utenti il 1° Stralcio della pista ciclopedonale realizzata tra Lecco Caviate e Pradello, il cui tracciato fiancheggia la statale 36 “del Lago di Como e dello Spluga” nel tratto compreso tra il km 55 (svincolo di Pradello) e il km 53 (località Caviate)” (vedi).  Due pesi e due misure.

Soluzioni, per evitare di passare da Cupacci o da Ravignano? La più banale è scendere di sella e procedere a piedi per un tratto di circa 1.500 metri, dal momento che non vige divieto per i pedoni, tale è considerato il ciclista che conduce il velocipede a mano, con una maggiore esposizione ed un maggior tempo di percorrenza, e dunque con maggior rischio.

Oppure? In aiuto ci viene il Regolamento di attuazione del Codice della Strada che, all’articolo 104 comma 2, così recita: “lungo il tratto stradale interessato da una prescrizione i segnali di divieto e di obbligo, nonché quelli di diritto di precedenza, devono essere ripetuti dopo ogni intersezione”.

Poiché i segnali di divieto sono posti sulle rampe di accesso alla SS 3 ma non vi sono replicati dopo l’intersezione, sulla stessa SS 3, in assenza di segnali replicati, allo stato della segnaletica, il divieto non vale più, si possono percorrere le rampe di accesso a piedi, conducendo il velocipede a mano (oppure accedere dal distributore di benzina, passando da un sottovia, ma solo in direzione nord), e salire in sella dopo l’intersezione. Insomma, invece di ottenere a tavolino una soluzione ad un problema reale, occorre sempre cercare le scappatoie.

Ho posto il quesito alle autorità competenti, senza ricevere alcuna obiezione, quindi ci passo, e non vedo l’ora che qualcuno mi faccia la multa per sottoporre la legittimità di questo stato di cose al Giudice di Pace. Ci passa, come da sua ammissione, anche l’assessore comunale competente (e inconcludente) per la questione, ma in forma strettamente privata: se lo facesse pubblicamente ed ufficialmente, il problema acquisterebbe ben altra evidenza, meglio ancora se ci passasse pubblicamente ed ufficialmente il sindaco Zuccarini con la sua handy-bike, come da me suggerito. Ma figuriamoci!

Questo stato di cose danneggia non solo i singoli cittadini ma anche quelle attività imprenditoriali o simili che propongono forme di turismo e di valorizzazione del territorio basate sulla mobilità dolce, tra cui appunto la bicicletta… e la Regione Umbria, competente in materia, che fa? Se ne infischia di questa frontiera ciclabile istituita da ANAS, concede ai mezzi a motore di poter scorrazzare sui sentieri, sulle mulattiere, nei prati, nei pascoli e nei boschi… ma ha presentato al BIT il progetto “Cammini aperti’, quelli religiosi e naturalistici. Oltre al danno… la farsa.

 

vedi, vedi

Na vorda era cuscì. Intervista a don Venanzo, cantore della Spello che fu

Intervista a don Venanzo Peppoloni, parroco e collaboratore pastorale della comunità spellana, al lavoro per dare alle stampe la terza edizione di un libro di culto, amatissimo e scomparso da anni dagli scaffali delle librerie: Na vorda era cuscì.
In vista della pubblicazione ha accettato di incontrarci nella sua casa, raccontando le origini di un volume celebre e senza uguali per  valore documentario, ritraendo minuziosamente la vita rurale e quotidiana di oltre cento anni fa

Ci sono persone che riassumono in sé l’identità di un’intera comunità. A Spello don Venanzo Peppoloni è protagonista e al contempo testimone eccellente della spellanità: quasi 90 anni e una vita vissuta fra la città alta, Vallegloria, e i campi, anzi, la chiusa, dove tutt’oggi zappa i piantuni de casa, nell’amato oliveto di famiglia.

Nato a Spello nel 1934 studia al seminario regionale di Assisi e viene ordinato sacerdote nel 1958. Cultura rurale e classica insieme: alla zappa affianca magistralmente la penna. Nel 1970 si laurea in Lettere classiche a Perugia e nel 1971 si specializza in Paleografia e diplomatica, Archivistica e Biblioteconomia alla Biblioteca vaticana.
Diventa insegnante di materie letterarie e cura la catalogazione del fondo antico della Biblioteca comunale di Spello, censendo inoltre fotograficamente – negli anni – moltissimi beni culturali in chiese, monasteri, ordini religiosi e case private.
Nel 1978 collaborerà alla pubblicazione della prima guida di Spello edita dalla locale Cassa rurale ed artigiana, ma è nel 1981 che pubblica il suo libro più amato: Na vorda era cuscì (con una seconda edizione che vedrà la luce dieci anni dopo, nel 1991), raccolta di proverbi, usanze, canti, tradizioni religiose e folcloriche del territorio spellano.
Nel 2005 segue La Bona Nova secondo Matteo, il Vangelo secondo Matteo in dialetto spellano, successivamente declinato in audio libro. Nel 2015 pubblica gli Statuti di Spello del 1360 in collaborazione con Adriano Tini Brunozzi.
Nel 2016 inizia l’inventariazione catastale in formato digitale di tutti i beni degli enti e istituti della diocesi di Foligno; ricerca che si è conclusa nel 2023.
Sempre nel 2023 pubblica un CD di canti rurali e religiosi; nel suo canale Whatsapp ‘Granellino’ invia a un centinaio di fedeli ogni giorno un podcast e spunti di riflessione, dimostrando grande dimestichezza con la tecnologia.
In questi giorni sta per dare alle stampe la terza edizione di Na vorda era cuscì, una Bibbia antropologica della Spello e dell’Umbria di oltre 100 anni fa, sulla quale lo abbiamo intervistato, andandolo a trovare nella sua abitazione in via Cappuccini.

A casa di don Venanzo Peppoloni. Si ringrazia per la foto la gentilissima Luisella

In attesa della nuova edizione 2024 torniamo indietro nel tempo. Nel 1981 la prima edizione di Na vorda era cuscì. Come nacque l’idea?
Sono figlio di genitori che lavoravano la terra. Tutto il giorno andavano nel campo, eravamo piccoli coltivatori. Decisi di raccontare come viveva chi abitava intorno a noi e faceva il contadino. Diedi al libro un’impostazione calendariale, che ha reso l’opera unica, considerando soprattutto che nell’ ’81 non si parlava mai di queste cose.
Scelsi come primo testimone un nostro amico di famiglia, Pietro Manini, nato nel 1901. A 17 anni perse il padre in un incidente durante la trebbiatura e divenne il capofamiglia. Nel 1955 si trasferì con la sorella e la famiglia del fratello Tommaso (detto Nello) nella proprietà di Umberto Benedetti e Domenico, in Voc. Acquatino. La sorella di Pietro, Maria, sposò Antonio Ricciolini. Il marito morì in guerra mentre era incinta di suo figlio, che chiamò Antonio Ricciolini, come il padre. Nato a Rivotorto di Assisi il 17 gennaio 1916. Antonio si trasferì presso i nonni materni nel vocabolo San Felice di Spello. Conseguì come privatista il diploma di abilitazione magistrale a Perugia, insegnando nelle scuole di vari comuni limitrofi. Lui, insieme allo zio Pietro, è stato fonte e testimone della stesura del libro.
Due persone nate e rimaste sempre sul territorio: questi sono stati i miei primi due testimoni.
Manini stava passando un momento difficile e quando abbiamo cominciato a parlare di questo progetto si è entusiasmato. Mi aspettava 3 volte a settimana, ci siamo visti per 3 anni. Non è stata soltanto un’intervista; dal pomeriggio finivamo insieme alla sera, Pietro voleva giocare a carte.

In che modo ha raccolto queste testimonianze?
Da principio nessuno si ricordava niente. Iniziavano a riferire una cosa, poi ne andavano a citare un’altra. Ma piano piano i ricordi sono riaffiorati alla mente; pensi che Manini la notte quando si alzava aveva delle reminiscenze e scriveva un canto, un proverbio… era completamente preso da questa iniziativa.
Da ricordare anche la Sig.ra Tosca Celli (pensionata, nata a Spello nel 1905) e il Sig. Luigi Fratini (impiegato, nato a Spello nel 1927) per le ricette di cucina; il Sig. Franco Peppoloni, operaio delle FS nato a Spello nel 1927, per le notizie sui funghi e sul patrimonio floro-faunistico del territorio e la signora Mercedes Gentili, nata a Spello nel 1906, per i testi di alcune filastrocche e ninne nanne.

Qual è il valore documentario del libro?
Non esiste nulla di così approfondito sulla vita quotidiana nell’Umbria di oltre 100 anni fa. Abbiamo raccontato tutto, per filo e per segno, tutto. Come si svolgevano i giorni in famiglia, sui campi, nelle feste, tra osservazioni meteorologiche e religiosità ma anche nella superstizione. Manini e gli uomini del suo tempo prendevano parte a tutte le manifestazioni civili e religiose. Senza tralasciare la loro memoria dei canti popolari.

Come si cantava a Spello e in Umbria?
Si cantava ‘a recchia’, usando una mano vicino ai padiglioni auricolari per sentire meglio, da chiusa a chiusa. Il canto nobilitava la fatica, il lavoro. Per fortuna li abbiamo registrati quella volta. Oggi non esistono più, non ci sta più una persona che conosca quella musica. Un fenomeno singolare quello del lavoro sublimato dal canto, che ho inserito in un vissuto espresso fra la saggezza popolare dei proverbi, la culinaria con ricette di cucina povera, la raccolta e la preparazione in cucina di erbe spontanee, la religiosità che talvolta sfociava in superstizione, e anche la medicina popolare.
Su certe canzoni, come Pia dei Tolomei, ho lavorato molto per ritrovarne le tracce. Mi dissero che sopra Nocera, a Morano, ci stava uno che la conosceva tutta. Andai lì una sera, trovai un bambino piccolo, moglie e marito. Spiegai che ero andato perché cercavo il testo della canzone. Quello non aveva testi scritti ma subito si mise a cantare: 54 strofe tutte a memoria. Ci misi un’ora e mezza, fermandolo e trascrivendo strofa per strofa

Spartito e parte del testo della canzone ‘Pia de’ Tolomei’

Nella nuova edizione la parte dei canti è stata implementata
Si. Prima di scrivere il libro avevo cominciato a registrare e a pubblicare i canti popolari più conosciuti. Nel 1979 ho raccolto, inciso e pubblicato il patrimonio canoro rurale del territorio di Spello. La registrazione è stata svolta in forma diretta nelle case dei contadini-canterini già esercitati nelle varie manifestazioni folcloristiche. I canti sono stati registrati dal tecnico Gianni Paradisi e trascritti dal musicologo Giampiero Fazion in forma manoscritta (ndr. Canti dell’Umbria Spello e Circondario, Venanzo Peppoloni e Giampietro Fazion, ed. Recchioni, Foligno 1979)
Nella prima edizione del mio libro del 1981 ho inserito queste canzoni religiose, integrandole con canti legati alle attività rurali come la raccolta delle olive, la potatura o la mietitura.
A fine 2023 è uscito anche un cd, Na vorda se cantava cuscì. Canti rurali e devozioni di Spello. per il quale il Maestro Ottorino Baldassarri, spellano, organista di fama internazionale ha trascritto la primitiva partitura manoscritta in versione digitale. Un disco molto importante per me destinato alla diffusione e perpetuazione di questo particolare settore, finora inedito, del nostro patrimonio culturale. La speranza è che qualche giovane lo ascolti e si interessi a questo mondo che così è stato eternato e che altrimenti sarebbe scomparso.

Don Venanzo Peppoloni al lavoro sulla bozza della terza edizione in uscita nel 2024

La prima edizione fu un grande successo.
Si, il libro andò a scrocco e a ruba (sorride). Davvero lo rubarono prima ancora di essere portato via dalla tipografia. Uno che frequentava la tipografia Mancini e Valeri di Foligno, un dipendente comunale, stava per portarsi via un cartone delle prime copie; lo fermarono sulla porta.  E pensare che, cercando qualcuno che potesse aiutarmi a pubblicarlo, la Cassa Rurale di Spello mi disse che non gli interessava. C’era forse qualcosa di più identitario di un libro così? Lo capì bene invece la Cassa di Risparmio di Foligno che comprese il valore del progetto finanziando la stampa di 2000 copie tenendosene 1000 e dandone 200 ai propri dipendenti. Usammo, per risparmiare, una partita di carta celeste, ‘da zucchero’. “Facciamo finta che sia una carta antica” ci dicemmo. Il successo fu insperato.

Poi la seconda edizione, rinnovata e integrata
Si, anche questa realizzata, dieci anni dopo, nel 1991, grazie all’Associazione Dipendenti della Cassa di Risparmio di Foligno, e presentata dal giornalista Lanfranco Cesari

Arriviamo all’ultima edizione che vedrà la luce nel 2024. Quali novità rispetto al testo originale?
L’edizione che uscirà a breve includerà le partiture originali dei canti, trascritte dal Maestro Baldassarri e un cd con le incisioni, per le quali ringrazio i cantori e i musici della Filarmonica Properzio di Spello. In questa edizione le foto a colori saranno molte di più e non fascicolate insieme ma ad accompagnare il testo. Inoltre ci saranno molte più tavole e foto raffiguranti le erbe spontanee, 250 modi di dire e circa 200 proverbi in più.

La cappellina di famiglia e la lapide di ‘Bonnanzone III’

Non vediamo l’ora di leggerlo.
Chiudiamo con una curiosità: è vero che ha già costruito la sua tomba, con tanto di lapide al cimitero di Spello? Con su scritto “Bonnanzone III”?
Eh si. Bonnanzone era il mio soprannome e sono il terzo in famiglia a portare il nome Venanzo. Un modo come un altro per esorcizzare la morte. Mio nonno si chiamava come me, arrivò il giorno del suo funerale. Sparii dalla vista dei familiari…tutti mi cercarono per un paio d’ore. Mi ritrovarono al piano di sopra, in camera, vicino al letto dove stava nonno; ero nella bara, a terra, a braccia conserte e occhi chiusi; sarò rimasto così per un paio d’ore….
Ecco, vede? Questo è il mio loculo (mi mostra le foto della cappella funebre di famiglia con la ‘sua’ lapide); quando sarà il momento scriveteci sotto: “È tutto sonno arretrato”. Finora non l’ho usato, per fortuna. Del resto… “anche la prescia vole lu tempu sua!”

 

Alternativa Popolare, Enrico Presilla è sicuro: “Solo insieme ai folignati si può costruire la città del futuro”

Prosegue senza sosta il tour, nelle frazioni, di Enrico Presilla – candidato sindaco di Alternativa Popolare – per confrontarsi con i cittadini, ascoltando proposte e segnalazioni di criticità.

Sabato 10 febbraio, Laura Caraboni e Moreno Santegidi hanno organizzato un incontro a Vescia, presso il “Bar Ristorante Fichetto”; quello che più ha colpito è stato il coinvolgimento dei partecipanti, non spettatori passivi, ma cittadini che vogliono tornare ad essere attori della vita politica locale, pronti a lavorare, tutti insieme, per superare l’isolamento infrastrutturale-viario – oltre che politico – che ha determinato un progressivo e lento depauperamento sociale e ambientale della frazione.

Alternativa Popolare continuerà, con immutato impegno, ad ascoltare i Folignati, ponendosi al servizio della città

Basta con le solite promesse elettorali, da decenni puntualmente disattese; basta con la politica autoreferenziale, chiusa all’interno del palazzo e sorda alle richieste dei cittadini:
Il candidato sindaco Presilla, con al proprio fianco una squadra giovane, determinata e competente, è pronto a sostenere la rinascita di Foligno insieme ai cittadini, non più sudditi ma protagonisti.

Alternativa Popolare continuerà, con immutato impegno, ad ascoltare i folignati, ponendosi al servizio della città che deve ritrovare dignità ed orgoglio.
Il modesto tentativo (niente di più) di strumentalizzare fatti ed episodi che non riguardano la realtà locale, dimostrano soltanto il timore che taluni hanno nei confronti della politica realmente innovativa di AP, finalizzata esclusivamente al bene comune ed alla tutela degli interessi della comunità.

ABBASSO SANREMO

Qualche anno fa nel settimanale Panorama mi capitò di leggere, a proposito del festival di Sanremo, che tutti lo criticano, ma poi tutti lo guardano. Embè no; me la presi a male, perché io il festival della canzone italiana non lo guardo proprio. E non leggo nemmeno Panorama. Mi fu sufficiente qualche spezzone dell’edizione, credo, dell’ottantadue (anno poi trascorso direttamente nel catalogo leggenda causa Sarriá di Barcellona, quando Pablito distrusse ogni fantasia carioca; per non dire poi delle velleità di potenza teutoniche, qualche sera appresso), edizione canora, dicevo, della quale ricordo tale frate Cionfoli, che ringraziava, e un presentatore gioca jouer di cui non mi sovviene il nome. Panorama, invece, l’avevo sfogliato dal dentista, perché Panorama lo trovi (anche) dal dentista, variamente arricciato ai bordi, ma non per febbrili consultazioni, quanto per nervosismi pre-trapano. In genere, fra l’altro, dai un’occhiata a Panorama perché qualcuno, nel salottino d’attesa, ti ha soffiato Quattroruote, questa è la verità, se no col cavolo.

Comunque, a proposito del tutti lo criticano ma poi tutti lo guardano, tanta sicumera sull’animo umano nereggiava in corsivo sotto il sorriso durbans del piccolo grande amore, che faceva il presentatore, evidentemente, insieme alla svizzerona delle mitiche Tic Tac, ma anche di lei non ricordo il nome (ricordo il nome delle mutande che indossava per un’altra reclame più di trent’anni fa, ma non vale. S’era giovani, allora). Ho accennato ai presentatori, così si può risalire all’anno del responso oracolare sulle virtù italiche (e provinciali) di deprecare e gradire all’unisono; alle volte a qualcuno interessi. Ho visto che anche in questo giornale si è dato spazio ai canori in riviera; credo sia molto giusto, perché qui c’è la gioventù e la gioventù ha sempre ragione per contratto. Io però il festival della canzone italica non l’ho mai digerito nemmeno da ragazzo. Non perché preferissi i Led Zeppelin, che non mi sembra siano mai sbarcati da quelle parti, oppure il mitologico Angus con tutta la truppa thunderstruck, o i Lynyrd Skynyrd che a metà degli anni settanta mi pareva di stare al sole degli Stati del sud cantando a squarciagola Sweet home Albama, e invece stavo col mio chopper in via Piave, a fare il ciclocross. No, questo non c’entra niente; ero capace d’incantarmi imbambolato alla Casta diva di Maria Callas ma, buon Dio, mi piacevano pure i Figli delle stelle e m’incuriosiva un cerbottaniere delle case popolari che s’era messo in testa di imparare il testo di Stella stai, e lo canticchiava mentre andava in bici, essendoselo trascritto su un foglietto. Il testo di Stella stai, non so se mi spiego! Colorando il cielo del sud, capito? Colorando un figlio si può dargli i tuoi se no, se no e via scivola scivola una trentina di volte e ciao Canadà. E’ un miracolo come la mia generazione sia sana di mente.

 

Ma non c’entra nemmeno questo. Per me Sanremo è un’isteria (ben studiata) e non mi piace. Non mi piace per il battage che lo prepara e lo segue (i giorni appresso, se non sei lesto col telecomando, te lo ritrovi su Rai Premium prima di don Matteo), non mi piace perché è noioso, dura troppo (per me, che non l’amo, dura troppo pure la giostra folignate. Dura troppo, troppissimo; non ci vo da quando vincevano Bolero, Corsaro e Piccolo Fiore); non mi piace perché poi le canzoni destinate a restare arrivano penultime, tu-du-du, con la presunzione di fermarle al Roxy Bar e perché chi vuole andare al massimo a Sanremo arriva ultimo. E forse questo è l’unico dato positivo della pruriginosa sagra canora: se arrivi penultimo o ultimo, sta’ sicuro che avrai una carriera strepitosa. Non mi piace Sanremo per i carnet di anchorman e comparsate varie, perché non c’è mai niente di musicalmente sconvolgente, se no giungerebbe anche alle orecchie di chi non lo guarda, perché ci fanno pernacchioni politici che vorrebbero essere simpatici, e invece restano municipali e stantii, perché io il canone alla rai per il festival di Sanremo non lo vorrei pagare.

 

Rai tivvù ascolta, ti propongo una cosa: fammi pagare il canone solo per i programmi che voglio vedere. Guàrdati le private, mi risponderai. Ci sto: ma allora non mi far pagare il canone tout court. Io il canone lo pagavo volentieri per Piero Angela, ma non per Sanremo, buon Dio; il canone per Sanremo è un furto, meglio don Matteo. E non mi venire a parlare di nazional-popolare, sempre con questa tiritera dell’italianità, dell’evento collettivo e quindi coinvolgente, del selfie su noi stessi, dell’effetto collante, dell’edizione storica e minchionerie varie. Fascino indiscreto dell’aggettivo, che lascia la porta aperta allo stupro linguistico degli elzeviristi nazional-dionisiaci: edizione storica. La rivoluzione francese è una bagattella rispetto a Sanremo e alla sua edizione dimensionalmente storica. Buon per il circo discografico, che si frega le mani. Contenti voi. Io prendo in prestito dal mitico ingegner Covelli, lui davvero nazional-sincero, la clausola sontuosa con la quale seppelliva il consueto e barbosissimo natale vanzinian-pagano: anche ‘sto Sanremo se lo semo levato da le palle!

Erica Piccotti e Stefano Valanzuolo – Amici della Musica

10/2/2024, Foligno, Auditorium di San Domenico. Amici della Musica di Foligno. Presentazione della stagione concertistica 2024. Pablo Casals: la musica di JFK; racconto concerto. Erica Piccotti, violoncello; Stefano Valanzuolo, testo e voce recitante. Selezione di immagini di Sergio Fortini

Gestione illecita dei rifiuti e discariche abusive: il punto su reati e denunce. I numeri di un anno di attività dei Carabinieri Forestali

PERUGIA – Sono stati 1791 gli illeciti amministrativi accertati dal Comando Regione Carabinieri Forestale Umbria nel 2023, per un importo totale notificato di quasi 718mila euro. In tutto 528 i reati contestati, mentre le persone deferite all’autorità giudiziaria sono state 359. Rispetto al 2022 si registra dunque una diminuzione degli illeciti amministrativi ma al contempo si evidenzia un aumento del numero dei reati e delle persone denunciate, in particolare nel settore di tutela del territorio, delle discariche e dei rifiuti. Il dato che mostra il maggior incremento è legato ai sequestri penali. Ma entriamo nel dettaglio, partendo dagli incendi boschivi, che nel 2023 in Umbria sono stati 58, di cui 26 nella provincia di Perugia e 32 in quella di Terni, con una diminuzione del 52% rispetto al 2022, anno che aveva fatto registrare 122 incendi. In 4 dei 58 roghi registrati si è reso necessario l’intervento dei mezzi aerei (nel 2022 le richieste d’intervento aereo erano state 26. La superficie complessiva percorsa dal fuoco è stata pari a 65 ettari (di cui circa 33 di superficie boschiva; gli incendi più estesi in termini di superficie si sono verificati nel comune di Avigliano Umbro (ad aprile, frazione Santa Restituita, per 6 Ettari), nel comune di Sellano (a febbraio in località Cammoro, per 5 ettari) e nel comune di Narni (a luglio 2023, località San Liberato, per 5 ettari). L’attività investigativa ha portato al deferimento di un presunto responsabile degli incendi avvenuti nella zona del lago di Corbara e al deferimento all’autorità giudiziaria di 12 persone per il reato di incendio boschivo colposo (nel 2022 erano state 43).

Sono 8 le persone deferite per gli incendi causati durante le opere di ripulitura dei terreni, 1 è stato causato da un operaio intento al lavoro sui pali elettrici, uno dalle scintille emesse da una motosega, uno dalle scintille di un mezzo agricolo e un altro da un’anziana donna mentre bruciava una carcassa di animale. Da notare che nella provincia di Perugia si sono registrati più incendi nel periodo primaverile (10) che in quello estivo (4). Guardando le cifre (c’è un calo della richiesta di interventi e un minor numero di superfici incendiate) si può dedurre che la campagna di sensibilizzazione verso le buone pratiche di prevenzione dei rischi, la crescente collaborazione dei cittadini e il lavoro delle pattuglie sul territorio comincia a produrre buoni frutti.

Sul fronte discariche e gestione illecita dei rifiuti si è registrato un incremento delle notizie di reato, che sono state 123 a fronte delle 104 del 2022, ma le persone denunciate sono rimaste invariate, ovvero 97. L’ambito di intervento dei Carabinieri Forestali ha riguardato il contrasto all’abbandono dei rifiuti e la bonifica dei siti inquinanti, sia urbani, che speciali, in aree rurali, a cui si aggiungono i controlli sulla normativa riguardante lo smaltimento dei veicoli fuori uso e altre norme relative a rifiuti come apparecchiature elettriche ed elettroniche. L’attività ha riguardato i titolari di aziende deferiti per illecita gestione dei rifiuti pericolosi dal trasporto all’abbandono nonché trasporto per i controlli di rifiuti in assenza di Fir e infine le sanzioni amministrative a carico di cittadini per l’abbandono. Sono stati controllati 428 veicoli per trasporto rifiuti.

Per quanto riguarda i controlli in materia edilizia l’attività è rimasta pressochè invariata: le persone denunciate sono state 61 rispetto alle 60 del 2022. Intensa anche l’attività di controllo per la tutela della fauna selvatica. In questo contesto si segnala inoltre il permanere nel territorio del fenomeno del bracconaggio ittico con l’utilizzo anche di strumenti, come gli ‘elettrostorditori’, che producono gravi sofferenze per gli animali. Rimanendo sul fronte della tutela degli animali l’impegno dei Carabinieri Forestali si è intensificato negli ultimi anni. Nel 2023 i controlli sono aumentati toccando quota 747 ( erano stati 680 nel 2022), i reati contestati sono stati 14 (nel 2022 erano stati 9) a fronte di un calo degli illeciti amministrativi, dovuto sostanzialmente a modifiche normative. Hanno destato allarme negli ultimi mesi del 2023 i 24 cani maltrattati a Magione; a novembre 2023 un gatto è stato ucciso a fucilate a Gualdo Tadino mentre a dicembre scorso sono stati scoperti 88 bovini malnutriti a Montefalco. Nel periodo ottobre-dicembre 2023 si è svolta la campagna “Europol campagna birds 2023 – controlli illeciti in danno dell’avifauna”. Si tratta di controlli finalizzati al contrasto degli illeciti in danno dell’avifauna ed in particolare al traffico, alla cattura e all’uccisione illegale di fauna selvatica europea.

Ma non finisce qui, i Forestali sono stati impegnati anche nell’attività di sorveglianza e monitoraggio della peste suina. Nel 2023 sono state trasmesse 52 comunicazioni di rinvenimenti di carcasse sul territorio umbro, 28 nella provincia di Perugia e 24 in quella di Terni; controllata anche la carcassa di un cinghiale morto in allevamento, nessuna ha avuto esito positivo alla malattia. Trovate anche tre carcasse di lupo, portate all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale Umbria-Marche per i controlli: uno era morto a causa di un incidente stradale, il secondo era stato ucciso da un altro animale e un terzo per cause naturali. Grande attenzione anche alla campagna che prevede controlli contro gli illeciti commessi in danno agli animali d’affezione, per la quale alcuni Nuclei, con il supporto delle Asl stanno effettuando controlli sui siti web e forum dedicati alla commercializzazione di cani nell’ambito dei “Conventional Pets” e controlli sugli allevamenti ed i negozi che pongono in vendita cani e sugli importatori di cani. Sotto la lente anche il fenomeno delle esche e bocconi avvelenati, con attività di ricerca e bonifica.

Intervista al professor Gabriele Cruciani: ‘Serve una sinergia tra intelligenza artificiale e cervello umano’

PERUGIA – Intelligenza artificiale, praticamente l’argomento del giorno. Una ‘bomba’ il cui impatto supererà quello dell’avvento di Internet. Uscito dalle stanze degli ‘addetti ai lavori’, il tema si è ormai guadagnato l’ubiquità nei dibattiti pubblici, costringendoci a prendere atto di una rivoluzione silenziosa e potente che ora sentiamo avvicinarsi alla velocità della luce e temiamo possa sorprenderci impreparati, magari travolgerci. E se è vero che forse è preferibile una intelligenza artificiale ad una stupidità naturale, è altrettanto vero che la mastodontica transizione andrà gestita con saggezza, con una visione degli obiettivi legata al miglioramento della vita dell’uomo. Già, perchè anche uno strumento potenzialmente buono, nelle mani sbagliate può diventare dannoso. In altre parole perchè non si crei un ‘mostro’ bisogna che la nuova avventura non diventi roba da avventurieri. Il professor Gabriele Cruciani, ordinario di Chimica Organica all’Università di Perugia e delegato del Rettore alla ‘Terza Missione’, lavora da anni con impegno anche su questi complessi temi e la sua riflessione-quadro è illuminante: < Credo sia rilevante, soprattutto in campo scientifico – esordisce – creare metodi che non siano scatole chiuse con risposte automatiche ma che possano evolvere insieme a chi li usa. Penso cioè che si debbano prediligere metodi che permettano sinergia tra il cervello umano e quello artificiale. Sono fermamente convinto che, soprattutto in campo scientifico, l’unione tra il ‘know how’ umano e quello artificiale sia, almeno oggi, più potente della sola intelligenza artificiale>.
Professor Cruciani, l’intelligenza artificiale come cambierà la nostra vita?
<La nostra vita è già cambiata e cambierà in maniera più significativa nel prossimo futuro. Le modalità del cambiamento dipenderanno da fattori quali il contesto sociale, il livello culturale, le disponibilità economiche e la regione di appartenenza degli individui. Probabilmente per alcuni ci saranno effetti prevalentemente positivi, per altri molto negativi. Uno studio condotto negli Stati Uniti ha mostrato che oltre 30 milioni di persone rischiano di perdere il lavoro a causa dell’intelligenza artificiale (IA). Parallelamente le imprese stanno cercando milioni di lavoratori con specifiche competenze matematiche, informatiche e digitali, esperti in analisi dati, sicurezza informatica e analisi di mercato>.
Cosa distingue l’intelligenza artificiale da quella naturale?
<Vorrei puntualizzare che ad oggi non sappiamo ancora definire in maniera chiara cosa sia l’intelligenza, ma sappiamo che globalmente è distribuita in maniera abbastanza democratica. Chi non è proprio un genio in matematica, magari risulta molto bravo in materie letterarie o filosofiche. C’è chi invece eccelle nella pittura o nei lavori manuali. La stessa cosa accade nel regno animale e in quello vegetale in cui l’intelligenza si può manifestare con esempi di adattamento all’ambiente a dir poco prodigiosi. Al contrario, l’intelligenza artificiale non è distribuita in maniera democratica. Pochissimi al mondo sono in grado di alimentarla, gestirla e, oserei dire, usarla per interessi personali. Inoltre, l’intelligenza artificiale si sta diffondendo in maniera rapidissima senza un pari aumento di consapevolezza da parte degli utenti del
ruolo centrale che essa svolge nelle diverse tecnologie che utilizziamo quotidianamente. Per questo auspico che si arrivi ad una migliore trasparenza e democrazia nell’uso di intelligenza artificiale e allo stesso tempo ad azioni politiche di informazione dei benefici e dei rischi associati a questa tecnologia. Il nostro Governo, in linea con la strategia europea, ha adottato il Programma Strategico per l’Intelligenza
Artificiale, programma che delinea politiche da implementare nei prossimi tre anni per potenziare il sistema ‘IA’ in Italia. Purtroppo siamo in forte ritardo rispetto ai giganti privati che da anni hanno investito nel settore>.

Cosa prevale al momento, potenzialità o rischi?
<Sono ottimista per natura ma vedo sia potenzialità che rischi allo stesso livello. Purtroppo l’equilibrio tra potenzialità e rischi si può spostare con grande facilità e velocità. Chi ci può garantire sul fatto che queste tecnologie non vengano utilizzate per scopi bellici o per interessi di pochi o per manipolare informazioni in modo tale da sembrare vere? Il problema è che gli algoritmi di intelligenza artificiale hanno bisogno di grandi quantità di dati che si ottengono mediante ingenti investimenti. E’ stato stimato che una grande ditta software ha investito più di 20 miliardi di euro per sviluppare la sua piattaforma di ‘IA’. Globalmente il settore privato ha investito più di 300 miliardi di euro in questi anni. La comunità europea sta investendo in questo momento un miliardo di euro da utilizzare nei vari Paesi che la compongono. Credo che la sproporzione sia evidente. Gli attuali creatori e padroni di IA sono gruppi privati non europei; questa concentrazione di intelligenza artificiale in poche mani non può che destare una certa preoccupazione>.
Al ‘signor Rossi’ che volesse capire che vantaggi avrà dall’intelligenza artificiale cosa direbbe?
<Credo che al signor Rossi non interessi molto la conquista dello spazio, con robot intelligenti che vengono trasportati su Marte per analizzare il suolo e magari costruire una base spaziale. Probabilmente al signor Rossi interesserà di più sapere che mediante l’IA potrà dialogare con uffici virtuali ed ottenere informazioni e documenti in maniera pratica e veloce, potrà rifornirsi di cibo o vestiario senza uscire da casa, potrà dialogare con persone di qualsiasi nazione senza conoscerne la lingua. In casa potrà ottimizzare i consumi di energia, di acqua e ridurre i costi. Tra non molto potrà anche avere dei robot al posto di colf e badanti in grado di svolgere quasi tutti i
lavori manuali domestici. Se il signor Rossi è una persona fragile, potrà presto utilizzare una macchina che lo aiuterà a camminare, a vestirsi, a lavarsi, a passare da un piano all’altro della sua abitazione in sicurezza. Probabilmente il signor Rossi
userà chat GPT per generare testi o immagini, fare diagnosi di borsa o elaborare strategie di investimenti. Ma il signor Rossi dovrebbe capire che ci sono tanti altri modi ugualmente importanti in cui l’IA lo sta già aiutando>.

In quali ambiti l’intelligenza artificiale è già presente nelle nostre vite?
<Basti pensare quanto oggi l’intelligenza artificiale sia di ausilio nella progettazione di nuovi farmaci, nel campo della medicina personalizzata, nella diagnostica per immagini, nell’ambito della riduzione dell’impatto ambientale di composti chimici. C’è un mondo poco conosciuto delle applicazioni della IA che ha una ricaduta elevata  nella vita di tutti i giorni e nel futuro welfare>.
Si parla di macchine che potranno fare i lavori più pericolosi al posto dell’uomo facendo diminuire gli infortuni, ad esempio, ma bisognerà fare i conti con l’erosione dell’occupazione esistente, che ne pensa?
<Pienamente d’accordo. L’IA eroderà occupazione. Ad esempio, la rivoluzione industriale ha eroso l’occupazione dell’epoca, ma ha anche trasformato la tipologia del lavoro e creato nuove occupazioni. Credo che questo succederà anche per l’avvento dell’IA.Molti lavori spariranno, altri saranno modificati, altri ancora verranno creati. Sono abbastanza convinto che la tipologia di lavori semplici e ripetitivi possa essere quasi totalmente sostituita da processi guidati da intelligenza artificiale>.
Più in dettaglio, cosa dobbiamo temere dall’intelligenza artificiale?
<Un rischio molto attuale e abbastanza sottovalutato è la violazione della privacy. Dobbiamo essere consapevoli che siamo tutti schedati, controllati e codificati. Ci sono computer nel mondo che conoscono i nostri orientamenti politici, le preferenze alimentari, i nostri spostamenti, la nostra disponibilità di denaro, le nostre foto di famiglia. Queste informazioni sono usate per orientare le nostre scelte, i nostri acquisti. Questo accade oggi. Con l’aumento delle connessioni, delle macchine in grado di comunicare con noi, dell’uso di queste tecnologie, la nostra privacy sarà sempre più violata rimanendo solo un’illusione. Un altro rischio sottovalutato è l’inaridimento intellettivo degli utenti. Credo sia già evidente come i nostri giovani non conoscano più la geografia, anche quella della regione in cui vivono. A cosa serve se basta inserire una destinazione in un navigatore per ricevere indicazioni su come raggiungere il luogo prescelto? Questo sta succedendo anche in altri campi, e così si disimpara a fare operazioni matematiche, si riducono al minimo nozioni scientifiche, in poche parole si diventa schiavi di una tecnologia che potrebbe non essere sempre garantita con conseguenti gravi problemi se mai dovesse fallire o improvvisamente venire meno. E non è tutto, in quanto abbassando il livello di conoscenza, si abbassa anche la creatività. Insomma il rischio
più elevato è che ad un aumento di intelligenza artificiale possa corrispondere una pari diminuzione di intelligenza naturale>.

In Umbria come ci si sta muovendo, quali i settori maggiormente coinvolti? Sul fronte sanitario, ad esempio, cosa sta accadendo?
<All’Università degli Studi di Perugia ci sono gruppi che sviluppano algoritmi ed applicano l’intelligenza artificiale in svariati settori. Recentemente si sta cercando di correlare dati chimico-clinici con lo sviluppo di malattie neurologiche mediante metodi innovativi di IA. A Spoleto sta nascendo un Centro di ricerca universitario che usa intelligenza artificiale per affrontare e risolvere problematiche tipiche della medicina M4P (Personalizzata, Predittiva, Preventiva e Partecipativa) e delle scienze omiche applicate prevalentemente allo studio di vari ambiti della biologia e della medicina dell’invecchiamento, nonché alla gestione pro-attiva di fragilità e disabilità in correlazione con età e patologia. Questi sono ambiti particolarmente rilevanti per le prospettive di sviluppo e gestione socio-sanitaria di un territorio che “accumula invecchiamento” (circa il 25% della popolazione regionale ha attualmente un’età maggiore di 65 anni con un trend in aumento). Ad Umbertide ci sono istituti superiori che si aprono all’Intelligenza Artificiale con corsi appropriati. C’è molto
dinamismo. Sembra strano, ma proprio nella nostra regione, a Bettona, c’è una eccellenza nel campo dell’intelligenza artificiale, una ditta che produce software di intelligenza artificiale da circa 40 anni con clienti sparsi in tutto il mondo ma localizzati soprattutto negli Stati Uniti>.
A quali progetti sta lavorando?
<Dal momento della mia laurea mi sono sempre occupato di intelligenza artificiale applicata alla chimica e alla chimica farmaceutica. Il mio è un settore di ricerca ristretto, che possiede però notevoli applicazioni pratiche. Circa 30 anni fa, con metodi di intelligenza artificiale applicati alla cristallografia tridimensionale di proteine, il mio gruppo di ricerca ha sviluppato il primo farmaco antivirale della
storia umana, chiamato Relenza, di proprietà di GSK
(ditta farmaceutica inglese). Allo stesso modo, durante la pandemia di Covid-19, abbiamo ripetuto la procedura e siamo arrivati alla progettazione e sintesi di un composto anti-Covid molto
interessante
. Fortunatamente il vaccino ha reso non necessario il suo utilizzo ma l’approccio scientifico è risultato vincente tanto da poter ipotizzare il suo uso per contrastare altre possibili future pandemie. Stiamo sviluppando composti chimici in grado di degradare alcune proteine che sono implicate in forme particolari di cancro. Abbiamo una linea di ricerca per automatizzare l’individuazione di migliaia di potenziali biomarcatori legati alla progressione di alcune malattieSviluppiamo metodi diagnostici per trovare nei liquidi biologici informazioni prognostiche (biopsia liquida).In genere progettiamo ed usiamo metodi di intelligenza artificiale
che non spengono il cervello degli utenti ma al contrario ne amplificano le potenzialità. Quello in cui credo (e siamo molto pochi a crederci) è che amplificare l’intelligenza di un ricercatore, di uno scienziato, sia molto più importante del semplice uso dell’intelligenza artificiale>.

Foligno in una tazzina. Viaggio multimediale alla scoperta del Gran Caffè Sassovivo

Il Gran Caffè Sassovivo fu luogo di socialità della Foligno di inizio Novecento. Eccolo documentato in una narrazione ipermediale, che raccoglie le testimonianze di chi lo ha vissuto e dei cittadini folignati

Raccontare una città significa raccoglierne l’eredità culturale, mettendo insieme pezzi di storia sparsi fra archivi e memorie popolari; raccontare Foligno significa passare intorno ai biliardi delle fumose sale del Gran Caffè Sassovivo. Quello – per intenderci – del celeberrimo birillo, che, come un minuscolo Atlante, da solo reggeva l’intera leggenda di Foligno “centro del mondo”. Polo calamitante per la socialità cittadina, da inizio Novecento a fine secolo ospitò – come un torace barocco e brulicante di folla – il cuore pulsante della cultura folignate.
«Inaugurato il 4 giugno 1930, per oltre cinquant’anni si è connotato come il salotto buono – quasi di élite – dei folignati. Poi, negli anni – come documenta in un articolo Stefania Filipponi – ha perso quel “tocco aristocratico” per diventare un punto di aggregazione e socializzazione, dove le genti di Foligno si incontravano, in un contesto conviviale, per dibattere di questioni sociali e politiche, e persino per concludere affari».

Non basta, fu «un luogo sacro dove è nato il primo embrione del giornalismo folignate» come ben raccontato da Roberto di Meo. «Nel locale da the, con i tavoli esagonali con scacchiera incorporata, c’erano lungo tutta una parete cinque cabine telefoniche insonorizzate che, all’occasione, servivano per dettare i pezzi ai giornali di allora: La Nazione, corrispondente Giuseppe Tardocchi; Il Messaggero, corrispondente Giuseppe Galligari; Il Tempo, corrispondente Nazzareno Mancini; La Notte di Milano, corrispondente Lanfranco Cesari; Il Telegrafo, corrispondente Ermanno Benedetti; Denio Fedeli, corrispondente Rai e Gilberto Scalabrini, corrispondente Ansa».

A sentirne parlare, ci si potrebbe fare l’idea che una simile istituzione abbia nel tempo lasciato tracce tangibili, evidenti al pari delle rimanenze murarie che ancora oggi incorniciano il centro storico: ma quando ci si mette in animo di raccontare una storia ex novo (e ancor più laddove si vogliano esplorare i luoghi del racconto con la foga documentaristica del moderno “Indiana Jones”), bisogna fare i conti con un finale non sempre prevedibile. Esterrefatti dall’epilogo “commerciale”, per ritrovare il “nostro centro” ci siamo rivolti a un uomo di scienza, il professor Pierluigi Mingarelli, direttore del Laboratorio di Scienze Sperimentali.
Dopo aver chiamato in causa persino la matematica, nel nostro “viaggio nel tempo” abbiamo messo un piede metaforico  – per tramite delle preziose memorie del giornalista Roberto Di Meo e dell’avvocato Giovanni Picuti – all’interno delle sale del Sassovivo, «origliando i pezzi dettati alle testate dalle cabine telefoniche, assaggiando vari tè al bancone; magari imparando a giocare a carambola! Pagando l’expertise con qualche colpo di tosse immaginario causato dal fumo denso che pare conferisse al Gran Caffè un’aria quasi noir».

«Arrivavo appena con il mento all’altezza delle sponde. Guardavo meravigliato quegli uomini che facevano impazzire le biglie da una sponda all’altra, spedendole nel punto designato con precisione micrometrica, quasi immersi nel fumo delle sigarette che diventava una sorta di nebbia diffusa nella sala»: queste le impressioni (indelebili) di un giovane Carlo Rampioni, non ancora architetto: «Crescendo, la possibilità di frequentare quella sala diventava un importante traguardo nello svolgersi della vita: varcare quella soglia da giocatori e non più solo da spettatori era un vero e proprio rito di iniziazione, la fine dell’adolescenza e l’ingresso ufficiale nell’età adulta. Guardavamo Kocis e Ciaravaglia (frequentatori storici del Gran Caffè, NDR) gareggiare con raffinatissima maestria nel contendersi una vittoria che di fatto era il prestigio misurato dal consenso degli spettatori; i quali, io penso, avrebbero perfino pagato per vederli».

Crescendo, la possibilità di frequentare quella sala diventava un importante traguardo nello svolgersi della vita: varcare quella soglia da giocatori e non più solo da spettatori era un vero e proprio rito di iniziazione, la fine dell’adolescenza e l’ingresso ufficiale nell’età adulta

Nell’impossibilità di riservarci un biglietto, ci rincuora sapere di aver restituito in qualche modo  a Foligno – attraverso la nascita di questo giornale e al costante lavoro della nostra redazione – il suo Gran Caffè, fuligginoso e febbrile come l’abbiamo trovato: un vero e proprio pezzo di DNA folignate riconsegnato alla città.

IL RACCONTO – È il 1980 quando Salvatore Denaro, studente siciliano di Piazza Armerina arrivato nel 1977 in Umbria per studiare alla facoltà di Agraria di Perugia, giunge a Foligno per lavorare al Gran Caffè Sassovivo. Dieci anni dopo diventerà l’oste umbro per eccellenza, aprendo l’amatissima enoteca-osteria ‘Il Bacco Felice’ in via Garibaldi. Suo il racconto del Gran Caffè di 44 anni fa: della magnificenza del grande lampadario centrale e delle maestose sale, assai frequentate e fumose in cui, sotto la penultima gestione targata Muzzi-Ferrarese, scorreva la vita della città. Non senza difficoltà: in quegli anni sotto le logge e fra i tavoli all’aperto del Gran Caffè non c’erano solo avventori di ogni classe sociale ma anche spacciatori e tossicodipendenti; tempi in cui l’eroina ebbe un drammatico tributo di vite umane e quelle difficoltà sociali influirono anche sulle sorti del Sassovivo.

TESTO di Vittorio Bitti
VIDEO a cura di Giacomo Toni e Alen Galante
AUDIO INTERVISTA a cura di di Federica Menghinella

SI RINGRAZIA Giovanni Paternesi per l’importante contributo dal suo archivio fotografico

Sanremo, duettiamo o no? Le pagelle di Claudia

Duettiamo o non duettiamo sì o no?
Puntuale il venerdì si parte con la serata dei duetti. Speramo bene. Perchè de solito qualcuno devasta le canzoni come Madame l’anno scorso che mi ha ammazzato De Andrè o, quello di cui ho rimosso il nome, che mi mandò di traverso una frappa dopo aver massacrato Battiato.

Sangiovanni con Aitana (Farfalle e Mariposas). Io non lo so’ se so’ vecchia, ma spiegateme Aitana mo chi è?  Questo Sangiovanni che canta una sua cover manco fosse Lucio Dalla. Levatemeli dalle mani. Voto 2

Annalisa e La rappresentante di Lista (Sweet Dreams). Dopo 8572 vocalizzi finalmente cantano. Le voci ci sono. Ma spiegateme sto remix da discoteca del sabato pomeriggio al Mito de Montefalco perchè proprio non lo capisco come quando hai napoletana a coppe e esci dicendo volo… Voto 6.5

Rose Villain e Gianna Nannini (Medley). Va Beh Gianna è Gianna. Tiè! Senti che grinta a 70 anni, magnace un prugnolo. 
Cosetta lì come te chiami? Voto 4. Anzi no famo 5 perchè hai detto Caxxo sul palco dell’Ariston e domani giù a polemiche. Gianna Nannini Voto 8 

Gazzelle e Fulminacci (Notte Prima degli esami). Io vorrei tanto che ci fosse ancora Mario Brega pe piavve a pizze in faccia a due a due. Padre Cionfoli in confronto era Paul Stanley dei Kiss. Ce manca solo che scappa fori Vaporidis e il quadro è completo. 
Noiosi. Voto 4

The Kholors e Umberto Tozzi (Medley). E daje con il revival anni 70. Lu poro Tozzi non ha più tanta voce. Ma la platea balla e si diverte e pure io a casa su lu divano. Comunque se proprio devo dirla tutta preferisco la versione di Pedro Alonso  Aka Berlino de la casa de papel. Mannaggia ve volevo da 7 ma questa non è Ibiza quindi: voto 6.5

Alfa e Roberto Vecchioni (Sogna Ragazzo Sogna). La canzone è sempre bellissima, se non altro per il significato grande che si porta dentro. Roberto Vecchioni è un grande artista, Alfa con la stessa maglietta da 4 giorni. Unico neo, troppa la sovrapposizione delle voci nel ritornello. Bellino il rap finale, anche se con testo scontato. Voto 7

Con la tarantella della Cuccarini e Fiorello se ne sono andati 10 minuti. Sono le 21 e 48 e hanno cantato solo 6 cantanti… vedo l’alba.

Bnker 44 e Pino D’Angiò (Ma Quale Idea). Più che un gruppo parete lu garage sale de li vestiti de la Caritas. Irritanti come li cantieri su lu raccordo de Perugia – Bettolle. Fastidiosi come li porridge de gli inglesi a colazione. Voto 3

Irama e Riccardo Cocciante (Quando Finisce un amore). E Niente che ve devo di’. Bravi. Parecchio. Voto 7.5



Fiorella Mannoia e Gabbani (Che sia benedetta e Occidentali‘s Karma). Cosa posso dire ad un’artista che ha fatto la storia della nostra musica. Avrei preferito ascoltare tutta la canzone Che sia Benetta, cantata da te ma capisco che questo è Sanremo. Gabbani te vojo bene però avete fatto un compitino. Mannoia voto 6.5

Santi Francesi e Skin  (Hallelujah).Giuro che quando ho letto la scaletta ho pensato: va beh cantare Hallelujah questi so matti.  E’ un suicidio. E invece mannaggia a voi mi avete emozionato. Il momento più alto della serata. Standing Ovation. Voto 9 perché 10 non se da.

Io sarà peccato ma Arisa non je la fò. Me sta simpatica come quelli de via Butaroni.

Ricchi e Poveri e Paola e Chiara (Sarà perchè ti amo). Unz unz unz daje che ballamo. L’unica cosa che non capisco è perchè ve sete vestiti tutti e quattro come la carta vetrata. Ormai sembrano i trasferelli di se stessi, Paola e Chiara incluse. 
Voto 6 meno meno



Ghali e Ratchopper (Medley). Che eleganza, Ghali. A dispetto di tanti trapponi insignificanti lui è un artista nel suo genere musicale che può piacere o no. A me piace. Lasciatelo cantare Perchè ne sono fiero sono un italiano un italiano vero. Davvero bravo. Voto 7

Clara e Ivana Spagna e coro di voci bianche del teatro Regio di Torino.  “Ho perso le parole, Eppure ce le avevo qua un attimo fa… Dovevo dire cose Cose che sai Che ti dovevo Che ti dovrei”, canta Ligabue. E ho detto tutto. La messa è finita andate in pace. Voto 3

Loredana Bertè e Venerus (Ragazzo mio). E brava Loredana. In grandissima forma a ridare voce ad una canzone del suo passato sì ma che fu di Luigi Tenco. Un omaggio importante. Voto 7

Geolier  Gue’ Luche’ e Gigi D’Alessio (Medley Strade). Questo ragazzo è bravino ma non convince. Nemmeno con i suoi amici sul palco. La scena napoletana ha sfornato talenti di ben più rara bravura come gli Almamegretta o ai 99 Posse Spiace. Voto 6 ma vince inaspettatamente la serata sotto una bordata di fischi.

Angelina Mango e Il quartetto d’archi dell’Orchestra di Roma (La rondine). Non era facile. Lo sappiamo bene. Non era Facile. Ma che brava che sei Angelina. Proprio brava. Quella rondine volata via troppo presto magari ti ha davvero accompagnato in questa canzone che hai interpretato magistralmente. 
Quanto talento e quanta eleganza. Voto 8

Alessandra Amoroso  e Boomdabash (Medley). Ma che ve sete messi tutti d’accordo? No perchè a vedevve a canta quelle storture de  la prima sera sembravate tutti scappati de casa. Invece stasera guarda un po’ che bel karaoke. Voto 6.5

Dargen D’Amico e Babel Nova Orchestra  (Omaggio a Morricone). E no Dargen non ci siamo. No dai. Comunque su Come si balla me parte a razzo ci Pensa Anna, salto sul divano e rido da sola chissà perchè (forse questa la capiranno solo i quintanari) . L’autocoverizzazione regala un momento spiazzante ma non convincente. Voto 6 meno

Mahmood e Tenores di Bitti (Come è profondo il mare). Alessandro, perchè se chiama Alessandro, fa un viaggio a ritroso nelle sue origini sarde e porta un pezzo di Dalla non facile per la sua voce. Decisamente bene. Voto 7

Mr. Rain e I Gemelli Diversi (Mary). A mezzanotte e 21 ragazzi però un po’ di allegria su. Il pezzo dei Gemelli diversi (Mary appunto) ha segnato le generazioni, ma quei super eroi buttati lì ci è sembrato un po’ fuori luogo, Come certi chef che usano fiori  e microerbe a caso. 
Voto 5

Negramaro e Malika Ayane (La canzone del sole). Giulia lo sapemo che sai cantà non c’è bisogno de tutto sto strafare. Lezione di leziosità. Soprattutto per una canzone come questa studiata appunto per una voce che non era affatto potente. Malika perfetta. Voto 7 meno

Emma e Bresh (Medley). Un buon mix di voci, quella di Emma si fonde bene con quella di Bresh. So guasto d’amore. Voto 6.5

 Il Volo e Stef Burns (Who wants to live forever). I tenorini giocano la carta the Queen. E Fanno bene, del resto solo loro posso cantarla. Certo, a loro modo. In sottofondo la chitarra rock di Burns a ricamare una bella interpretazione. Voto 7 (sempre per le voci)

Diodato e Jack Savoretti (Amore che vieni, amore che vai). Diciamo che aveva già vinto a mani basse quando ha detto che avrebbe cantato Amore che vieni amore che vai. Almeno per me. Ma questa doppia voce con la ruvidità di Savoretti e quella di Diodato più lucida e nitida, e questo arrangiamento. Una bella poesia. Professore. Voto 8.5

La Sad e Donatella Rettore (Lamette). Non è cattiveria ma perchè non vi trovate un lavoro? Guardate che zompare sul palco così a caso non è cantare. Non aiutano nemmeno queste trovate sceniche già ampiamente viste e ritrite. Vi ricordo che Rose Villan ha detto Caxxo e voi nemmeno un piccolo rutto avete fatto. Voto 3

Il Tre e Fabrizio Moro (Medley). Tre famme capì ma che ja fatto de male agli organizzatori che te fanno sempre cantà quasi per ultimo. Fabrizio Moro ci sta ma il medley risulta troppo slegato  come quando te se smonta la meringa. Voto 5

BigMama e Gaia, La Niña e Sissi (Lady Marmalade). 
Cover della cover della cover insomma non so se la cantava peggio Christina Aguilera oppure voi. Povera Patti LaBelle. Vi passo questo girl power che avete portato sul palco dell’Ariston. Voto 6.5

Maninni e Ermal Meta (Non mi avete fatto niente).  Maninni mi fa sempre lo stesso effetto il protagonista del film di Virzi Ovosodo “C’ho un coso quì, un magone, come se avessi mangiato un ovo sodo col guscio e tutto. Non va né in su né in giù”. Non aiuta nemmeno  Ermal Meta che praticamente canta da solo il brano che vinse Sanremo nel 2018. Voto 5

Fred De Palma e Eiffel 65 (Medley).  Io come ve viene de Ballà cuscì alle 1.30 de notte. Ma che avete il potere della sacra scuola di Hokuto? Simpatici via. Voto 6

Renga e Nek (Medley). Perdonateme ma alle 1.45 non ce la posso fare. Non ho sentito Renga e Nek xhe me stavo a lavare i denti ma je do un sei e mezzo sulla fiducia. Voto 6.5

Ah fermi tutti ce stanno i Jalisse, quelli veri.
Jalisse,  Fiumi di parole.
Solo una.cosa li avete fatti cantare alle 1.30 di notte e comunque avete dimostrato una mancanza di rispetto. Al solito.
Anyway tanto il Festival lo vince Geolier quindi stasera che cantano affà?

Disney, l’Impero di Ghiaccio: “un anno di delusioni e sconquassi” affossano il colosso dell’animazione

C’è una teoria misteriosa che circola nei più reconditi recessi dell’Internet. Una teoria, vorrei puntualizzare, totalmente indimostrabile; ma che, proprio come molte altre dottrine di improbabile veridicità come la mitologia greca, la teoria psicanalitica freudiana e l’astrologia, ha la singolare capacità di illuminare il confuso mondo che ci circonda in molti sensi fuorché quello letterale. La teoria parte da una domanda molto semplice, e cioè: non è strano che il film Disney chiaramente ispirato alla favola La regina della neve di Hans Christian Andersen non si chiami “La principessa del ghiaccio” o “Un inverno fatato” o altri simili titoli fiabeschi, ma semplicemente Frozen?

Elsa, principessa in ‘Frozen’; fonte https://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/principessa-elsa-frozen-disney-vorrebbe-lesbica-1500030.html

La folle teoria, in sostanza, sostiene che Walt Disney — nel suo tentativo di circuire non solo le leggi di fine copyright americane, ma anche quelle eterne della vita e della morte — si sia fatto ibernare in gran segreto, e che il suo cerebro sia attualmente conservato sotto ghiaccio, celato nella scenografia dell’ottovolante “Space Mountain”, a Disney World, nelle paludose lande senza Dio della Florida. A supposta riprova della teoria si mormora — ed è qui che torniamo alla domanda iniziale — che nel 2013 i sommi vertici della Walt Disney Pictures abbiano chiamato “Frozen” il lungometraggio d’animazione sulla criogenica principessa Elsa precisamente per far sì che, qualora qualcuno digiti la stringa walt disney frozen in un motore di ricerca, non si ritrovi in sordidi forum che insinuano di certi crani occultati in certi rollercoaster, ma su una candida distesa di amichevoli info relative al celeberrimo film d’animazione. Ebbene, la grottesca immagine proposta da questa teoria del complotto mi è molto cara, e credo che possa illuminarci sullo stato attuale della Fabbrica dei Sogni.

Disney, un anno di delusioni e sconquassi: i suoi film di punta sono andati incontro a un’accoglienza di pubblico che va dal tiepido all’ostile

È passato poco più di un decennio dalle prime avventure della nevosa autocrate (la principessa protagonista del film, NDR), ed oggi la Disney ha ben altro a cui pensare che assurde dicerie ignote ai più. Titano egemone dell’intrattenimento, essa si lascia alle spalle un anno di delusioni e sconquassi: i suoi film di punta sono andati incontro a un’accoglienza di pubblico che va dal tiepido all’ostile; quelli ancora in preparazione languiscono in ritardi, contestazioni, e polemiche; e il valore del nome Disney, in borsa, ha subito un tracollo, tanto da trovarsi costretta ad alzare il prezzo della sua piattaforma streaming e a chiudere l’opulento hotel a tema Guerre Stellari ”Galactic Starcruiser” ad appena un anno dall’apertura.

Ma com’è possibile che la House of Mouse si trovi in difficoltà, con tutte le amate proprietà cinematografiche e televisive che ha creato o acquisito? La questione è come vengono impiegate. Il novero dei Classici Disney sta venendo, in questi ultimi tempi, sinistramente duplicato: ogni anno escono al cinema un paio di rifacimenti, che, a parte qualche notevole eccezione, scimmiottano il film da cui prendono il titolo pedissequamente, con tanto di battute e canzoni. Perfino i design di ambientazioni e personaggi animati vengono grottescamente riproposti in una versione adattata al mondo reale, più spenta e ordinaria. Manca la forza, l’intelligenza creativa responsabile dei Classici Disney: nessuno dei professionisti impegnati in questi remake sembra afferrare che cosa avesse reso così interessanti i film di cui loro si apprestano a creare uno stanco doppelgänger. Purtoppo, guardando i recenti remake de Il Re Leone, Mulan e Pinocchio, non si ha la sensazione di trovarsi di fronte a veri e propri lungometraggi, ma ad eventi cinematografici all’insegna dell’amarcord, per acchiappare i devoti fan, prenderli per il cuore, e arrivare alla tasca del portafoglio.

Si potrebbe dire che la Disney, sotto il comando di Bob Iger, sia lentamente scivolata nella stessa filosofia di approccio consumistico all’intrattenimento già osservata da Michael Eisner durante il suo primo mandato al timone dell’azienda, espressa perfettamente da un memorandum interno scritto dallo stesso Eisner:

“Non abbiamo alcun obbligo di fare arte. Non abbiamo alcun obbligo di lanciare un messaggio. Far soldi è il nostro unico obiettivo”.

Ora, i più economicamente istruiti dei nostri lettori potrebbero dire: “e che c’è di male? Quello di far soldi non è forse l’obiettivo primario di una qualunque azienda?”. Sì, è vero, miei ipotetici obiettori, ma la Disney ha cominciato a far soldi e si è affermata nel panorama cinematografico mondiale proprio facendo arte. Walt Disney era un imprenditore, un uomo che sapeva farsi strada nel suo business con mezzi leciti e meno; ma era innanzitutto un artista, che aveva una fiducia infinita nella sua arte. Sapeva tenere in equilibrio gli aspetti finanziari e quelli artistici del suo mestiere, e così creare capolavori che fossero anche successi di botteghino, confidando nella visione sua e dei suoi collaboratori. Era un’altra epoca, è vero: quando il cinema era giovane, e l’animazione era una meraviglia tutta da esplorare; quando la finanza era meno assurda — ma non tantissimo — di quella che è oggi; un mondo più paziente, non ancora plagiato dai ritmi ossessivi della televisione e dei social.

Oggi la Disney è rimasta orfana; e non ha più il vecchio Walt al comando, ma funzionari che non hanno il tempo e la voglia di correr dietro all’arte, con importanti investitori da tutto il mondo a cui render conto delle proprie azioni. Il balzano mito ci racconta che i seguaci ibernarono la regale e geniale testa del faraone Disney, inumandola nella piramide di Space Mountain, per resuscitarlo quando la scienza medica l’avrebbe permesso: egli avrebbe allora potuto condurre l’azienda a vette mai viste, e completare i lavori lasciati in sospeso. Ma la scienza medica non è progredita abbastanza, e il teschio di Walt Disney rimane senza vita, ibernato, impotente nel cuore dell’Impero. La sua ombra glaciale aleggia sull’intera azienda. Come gestire un simile precedente? Come sfuggire all’angoscia dell’influenza? Come dare vita ad altri capolavori senza tempo — e soprattutto, ricrearne i considerevoli incassi?

Nel 20120 un conscio sforzo di riforgiare, ridefinire la mitologia della principessa Disney; naufragato per incontrare il gusto del mercato cinese

In quest’era postmoderna, un tentativo era stato fatto. Nel 2010, ebbe inizio un interessante progetto di rivisitazione dei capolavori del passato: con i rifacimenti di Alice in Wonderland e Cenerentola, era chiaro che i cineasti responsabili avevano l’intenzione di instaurare un dialogo con i Grandi Classici Disney; in particolar modo con la figura delle principesse, che spesso nei film originali erano eroine per modo di dire, sballottate dal corso degli eventi fino all’inevitabile matrimonio con un principe di vaghe origini europee. In questi primi tentativi vediamo un conscio sforzo di riforgiare, ridefinire la mitologia della principessa Disney. Ma questo tipo di dialettica è forse risultato pericoloso agli investitori che vogliono far breccia nel (notoriamente conservatore) mercato cinese, e i remake sono gradualmente diventati l’acritica venerazione del passato di cui abbiamo già discusso.

Mia Wasikowska è Alice nell’Alice in Wonderland’ di Tim Burton; fonte https://images2.fanpop.com/image/photos/13600000/Tim-Burton-s-Alice-In-Wonderland-alice-in-wonderland-2010–13678039-1360–768.jpg

Assieme a questi rifacimenti, abbiamo conosciuto una sfilza di nuovi film in CGI di sempre minor successo, dei quali l’unico che prova a confrontarsi con i vecchi paradigmi Disney per sfidarli è il sopra menzionato Frozen. L’ultimo di questa sfilza, Wish, uscito da pochissimo, sbalordisce invece per la sua insignificanza. Rifugge il confronto con il passato, cercando tuttavia di omaggiarlo in ogni momento, ed è inevitabilmente eclissato, schiacciato, e fagocitato dai suoi illustri ispiratori. È possibile che, creando l’equivalente visivo di un cadavere surgelato, stiano perversamente tentando di emulare WD quel tanto che basta da scucirci il soldo di rito, emulando il santo defunto che non hanno il permesso di decostruire o criticare.

Ma forse i primi sforzi – per quanto lodevoli fossero – erano destinati a fallire comunque, senza dover postulare un conscio complotto da parte degli azionisti. Per quanto decostruzionistica, la continua autoreferenzialità non può far bene all’arte. Si finisce a parlare solo di se stessi, dimenticandosi di tutto: del perché si voleva fare arte in primo luogo, del pubblico, e di quel che si voleva dire.

Forse quello che servirebbe fare è staccare la spina alla ghiacciaia, lasciare che la testa di Disney si riunisca alla terra, scongelare il tempo nel cuore dell’Impero. Confrontarsi con i veri grandi classici: favole, romanzi, miti antichi e moderni a cui gli artigiani dell’animazione Disney guardavano per ispirarsi; e lasciare che gli amatissimi capolavori animati del passato riposino per un po’ con il loro creatore.

Forse un giorno, riscoprendoli, troveremo la magia che ora ci elude.

(Foto di copertina via Wikipedia)

“Le verdi colline dell’Africa”, a teatro con Sabina Guzzanti e Giorgio Tirabassi

FOLIGNO – Il giorno di San Valentino, grazie a “Foligno on stage”, sarà all’insegna del teatro. La rassegna, dopo la stand-up comedy di Daniele Fabbri che ha aperto il sipario del rinnovato Auditorium Santa Caterina, torna all’Auditorium San Domenico con lo spettacolo “Le verdi colline dell’Africa” (14 febbraio, ore 21), per un gioco ‘metateatrale’ di Sabina Guzzanti, anche autrice e regista dello show, e Giorgio Tirabassi. La coppia propone uno spettacolo divertente e innovativo, pieno di spunti satirici sulla contemporaneità, ma soprattutto un gioco che ruota intorno a un confronto sul teatro e la sua essenza.

È difficile parlare de “Le verdi colline dell’Africa” senza rovinare la sorpresa per gli spettatori. Si può dire che di sicuro non è quello che ci si aspetta. Il pubblico sarà coinvolto in modo inedito grazie a un dispositivo molto originale, che crea occasioni comiche esilaranti. Un personalissimo tributo della Guzzanti al testo “Insulti al pubblico” dello scrittore e drammaturgo austriaco Peter Handke. Un testo provocatorio e dissacrante che non racconta deliberatamente nulla: infatti, non c’è una storia, né una scenografia e nemmeno i personaggi.
L’unica cosa che rimane è il pubblico e l’energia vitale di una delle autrici più libere e creative nel panorama italiano che prenderà di mira le abitudini e il torpore intellettuale degli spettatori, ponendoli al centro di un gioco divertente e irriverente. Questo voleva Handke, e questo ci
regalerà Sabina Guzzanti con la complicità di Giorgio Tirabassi. Biglietti in prevendita nei circuiti di Ticket Italia e Ticket One.

I tigli di via Oberdan

Prima serata di Sanremo, si scrive tutto attaccato, al contrario di quanto si legga nei social ad opera degli agiografi da tastiera. Il Topino “scorre lento frusciando sotto i ponti, la luna splende in cielo e dorme tutta la citta”, davanti alla televisione, manco a dirlo. Esco per andare a studio dove ho dimenticato un fascicolo d’udienza. “Le strade son deserte e silenziose, è spenta anche l’insegna di quell’ultimo caffè”. Foligno si offre al primo malintenzionato che ambisca a mettere a segno indisturbato la spaccata di turno a danno delle vetrine del centro, come capita anche senza la concomitanza di Sanremo.

Chi t’incontro in via Oberdan? Non l’uomo in frak “con il cilindro e il cappello” ma un mio compagno di scuola che fa fare due passi al cane. Ci tiriamo su il bavero del cappotto, aggiustiamo la gardenia nell’occhiello e scivoliamo piacevolmente nei ricordi. Io con le mani nelle tasche e lui con la bestiola al guinzaglio, che sembra disposta a spendere più energia di quella che avrebbe potuto impiegare mingendo alla base della pianta più vicina. Ci trascina di tiglio in tiglio fino a quando raggiungiamo quelli (tre per l’esattezza) che di propria iniziativa ha rimpiazzato Maurizio Salari in luogo degli altrettanti abbattuti dalle precedenti amministrazioni. Sul punto è inutile sottilizzare. Salari è un uomo pratico, uno di quelli che vorrebbero trovare del mondo le cause e gli effetti. Se cade un torrino lui te lo rimette in piedi, se segano un tiglio di troppo te lo ripianta. Ma è anche un inguaribile romantico. Un incurabile idealista, come dico al mio interlocutore, svelandogli che il motivo vero per cui Mauro (preferisce farsi chiamare così) si è offerto alla piantumazione è che quando era ragazzo tra quei tigli e le mura medievali ci giocava ad accostarella.

Bello no? In ogni caso, miscendo le cause e gli effetti nell’unico tumulto in cui tutto è cagione di ogni cosa (al di là dei tritumi e delle banalità meditate dagli zelanti funzionari per rendere più gradevole l’arredo urbano) non fosse stato per Salari quelle tre aiuole sarebbero rimaste vuote. Come le ricordo per una decina d’anni dopo l’eccedente abbattimento. Lo dico al mio compagno di scuola il cui cane nel frattempo ha lasciato alle rinnovate alberature il suo fisiologico apporto. La deformazione professionale mi ha fatto pensare ad una massima tratta da Ulpiano (De Iustitia) Ius naturale est quod natura omnia animalia docuit: (diritto naturale è quello che la natura insegnò agli animali). Mentre si abbassa per raccogliere il fumante regalino gli auguro “bonne nuite, bonne nuite, buona notte” e me ne torno a casa fischiettando una vecchia canzone di Modugno. 

A 30… allora!

A 30 km/h in effetti ci andavano… allora, quando a cavallo degli ultimi due secoli, cominciavano a circolare strani ammassi di ferraglia rumorosi e semoventi che in campagna per lo spavento bloccavano l’uovo alle galline e dovevano essere preceduti da un ragazzo che ne annunciava l’arrivo al suono di una campanella. Poi, come si sa, i tempi sono cambiati. Furono battezzati auto-mobili e ora sono dotate di tutto e di più, forse anche di quel ragazzetto che prima suonava la campanella e che adesso sta da qualche parte nel cofano e si chiama servo, e a seconda della funzione diventa servofreno, servosterzo, cambio automatico, sensori qui, sensori là e quant’altro.

Ovviamente te lo fanno pagare. Quando i rivenditori ti vogliono accalappiare ti raccontano che l’auto raggiunge i 240 km/h e che ha un motore di tale potenza che da 0 a 100 ci arriva in un nanosecondo. Poi arriva la legge che ti dice che devi andare a 30 km/h quando il tachimetro segna i 20 quando l’auto è ferma e il motore non è ancora acceso. Una Ferrari credo che si rifiuterebbe proprio di partire!

L’obbligo di procedere a 30km/h sembrerebbe verosimilmente scaturito dalla necessità di tenere moderata una velocità che, se superiore, potrebbe risultare un pericolo per quanti sono coinvolti nel traffico conducente compreso. Tuttavia solleva situazioni e conseguenze degne di una certa nota. 

Intanto per essere sicuri di non incorrere in sanzioni conviene prudentemente rimanere almeno di mezza tacca al di sotto dei trenta. Pertanto questa velocità costringe ad usare marce basse (per i motori a combustione) con conseguente aumento del consumo di carburante e quindi di emissioni, oltre a un surriscaldamento e deterioramento del motore. Un tale limite di conseguenza renderebbe ingiustificata tutta la dotazione di sistemi di sicurezza che ormai non sono più opzionali ma di base in ogni auto e che contribuiscono non poco al prezzo di acquisto. A proposito: con tale limite di velocità il premio dell’assicurazione scenderà?

Ed è così che salta fuori lo “Zorro degli automobilisti” e qui il problema si sposta sul piano psicologico e caratteriale degli italiani. Da nord a sud il concetto di regola, o legge, varia profondamente. L’unico elemento comune è il principio dell’auto determinazione. L’italiano così pensa: “Sono IO che valuto, sono IO che decido la giusta velocità da tenere, IO non ho bisogno che ci sia qualcun altro a decidere per me, IO non sono mica un cretino!” Purtroppo è così, una regola imposta è considerata un insulto all’intelligenza. Gli italiani in realtà non sono un popolo ma un insieme di popoli di natura diversa e quando servono creano le loro regole a seconda della loro cultura di origine. E’ un detto, penso, solo italiano fatta la legge scoperto l’inganno. Ed ecco che, fatta la legge, uscito lo Zorro segatore di autovelox.

Una guida corretta e prudente proviene dal buon senso, dalla perizia e dal senso civico di chi è alla guida che consapevolmente e realisticamente sa valutare le varie situazioni e agire di conseguenza. Si possono far danni seri anche a 30 km/h se alla guida c’è un ubriaco, un drogato o un genericamente esaltato. Non voglio sollevare la questione se qualche comune vuole fare cassa o no. Serve praticare l’educazione alla correttezza e al buon senso, in mancanza della esce poi fuori Zorro. Forse prima o poi lo beccheranno, ma, come si dice per il papa, preso uno Zorro ne uscirà un altro, si moltiplicheranno come cloni ovunque e intanto uno ne è appena arrivato nella sperduta Umbria, quella che per le previsioni del tempo non ha nome ma è solo “le zone interne del centro”. È arrivato a Spoleto e sulla Flaminia ha messo fuori uso un autovelox. Un reato è sempre un reato, non si discute, ma penso che le leggi per essere correttamente osservate debbano sempre essere logiche e per questo condivise automaticamente dalle persone di buon senso. Se questo non avviene vuol dire che da qualche parte c’è qualcosa da rivedere.

La montagna umbra ha bisogno di un nuovo motore

Il futuro della montagna umbra è una questione troppo importante per ridurla a un derby tra chi è a caccia di voti e chi difende il proprio diritto a frequentarla, semplicemente a piedi. Chi ha davvero a cuore la montagna, area interna e marginale (una contraddizione in termini), sa che la questione è molto più ampia.

Certo, camminatori e motociclisti non possono convivere sugli stessi sentieri. E la tesi avanzata da taluni secondo cui “la montagna è di tutti”, non regge. Perché anche il centro storico delle città è di tutti, eppure i TIR non possono transitarci, per ovvi motivi. Anche l’aria è di tutti, ma non tutti possono farne ciò che vogliono, inquinarla ad esempio. Si sta dunque discutendo sulle regole. Ma il quadro di regole potrà essere chiarito solo quando si definirà una visione complessiva della montagna.

Il fatto è che la montagna umbra è oggi un sistema articolato, intricato, delicato e abbandonato, dal futuro incerto e dal presente nebuloso e a bassa densità di popolazione (e quindi di votanti).
Forse allora il grande clamore di queste settimane con la polemica sull’emendamento di legge regionale che consente il traffico dei veicoli a motore in montagna, potrebbe essere utilizzato in positivo. Ma occorre allargare la visuale, come da una cima, e mettere al centro del dibattito pubblico, di un confronto auspicabilmente partecipato, le questioni generali sul futuro della montagna e non solo il tema particolare “motori no, motori sì”.

C’è un lungo elenco di questioni da segnare in agenda, prima ancora che si accendano i motori delle moto o delle Panda 4×4 dei cacciatori e la cui soluzione va ben oltre le scadenze e gli appetiti elettorali. Più sinteticamente si dovrebbe guardare alla montagna, prima di tutto, come luogo di lavoro, come luogo da riabitare e come luogo naturale. Tre aspetti che devono per forza di cose intrecciarsi.

Per lavoro s’intende il vecchio e il nuovo. Perché quasi nessuno, ad esempio, parla dei pascoli abbandonati, o affittati a chi non li usa, con i nostri pochi pastori che – paradossalmente – non hanno spazi? Pochi s’interrogano sul ruolo dell’Afor (l’Agenzia Forestale), dei Guardaboschi degli enti pubblici. Quasi mai si parla delle manutenzioni nelle aree montane, della gestione dei boschi, del sostegno alle coltivazioni che appartengono alla tradizione delle terre alte. In pochi (…ma lo ha fatto questa testata) sostengono la necessità di garantire la connettività come presupposto a un nuovo abitare nelle aree montane. E quasi nessuno si ricorda che le montagne prima ancora di essere nostre (ovvero degli umani) sono l’habitat per una infinità varietà di specie animali e vegetali

E dunque: come e cosa dovrà essere la montagna umbra del futuro?
Un parco giochi per motociclisti, per cacciatori, per escursionisti, o per bikers? Una riserva naturale per preservare la biodiversità, o un ecomuseo? Oppure un luogo da riabitare, anche in considerazione dei mutamenti climatici, di un rilancio dei lavori tradizionali e della possibilità di sviluppare nuovi lavori on line? O un luogo da riabitare magari per sperimentare uno stile di vita diverso dalla way of life propagandata nel mainstream e  – di conseguenza – un differente approccio culturale?

Forse davvero la montagna umbra ha bisogno di un motore. Alimentato però con idee nuove e non a benzina.

Da un mese tutti sull’isola che non c’è. Finirà come i dieci piccoli indiani

Sono riuniti da oltre due mesi nell’isola che non c’è ma che in realtà si chiama Topin Island ed è a qualche centinaio di metri dalla cascata dell’Altolina. I coalizionisti di sinistra hanno fatto sbarcare, si fa per dire, dieci candidati che hanno deciso di discutere con impegno per arrivare ad una concreta soluzione: proporre il nome del futuro sindaco. Avevano inizialmente deciso, come pensiero primario, di far votare il popolo. Poi hanno presentato, all’improvviso, il primo candidato.

Ma questa decisione ha avuto come reazione uno spernacchiamento generale che è salito chiarissimo fin sopra la croce di Pale per poi inondare la vallata sottostante. E la colpa è stata data a dei grilli piccoli, piccoli. Quella data è stata segnata in rosso sul calendario della Topin Island con il nome “Giorno del grande peto”.

Ed ora sono tutti alla ricerca dell’assassino virtuale. Così puntandosi vicendevolmente il dito, l’un contro l’altro, sull’isola sono rimasti solo cinque piccoli indiani. Sembra sparito anche il gioioso frinire che scuoteva le fronde dei pioppi. Insomma li grilli non cantano più. E come ci ha insegnato Agatha Christie man mano che il tempo passa dei piccoli indiani non ne rimarrà più nessuno. Riprendendo, a modo nostro, il finale: solo, l’ultimo piddino, alle urne se ne andò, ma alla fine della festa più nessuno lo votò.

Nell’angolo della saletta, dietro una nuvoletta di fumo di sigaro, Peppe de Tanilla che stava a giocà  a briscola con Righetto, inforcò gli occhialetti, mi guardò dritto con i suoi occhi celesti e, mostrandomi l’asso de bastoni, disse: “A Satiru, va vene tutto ma ricordete che San Marco è un gran santu”.

Sanremo, le Pagelle di Claudia

Le pagelle che seguono giudicano solo la canzone in gara, la performance di ieri sera. Poesse che domani è un altro giorno si vedrà e magari qualcuno stasera canta mejo e alza la media Per ora questi sono i giudizi e, visto che Sanremo è un festival canoro, o meglio dovrebbe esserlo, a chi tocca non se n’grugni.

Giornalisti in sala stampa all’Ariston

Clara – Diamanti grezzi
Mannaggia però ce potevi portà sul palco pure Cardio trap. Crazy J po’ anna bene per la serie tv e non pe Sanremo. Te ce sei vestita elegante ma co sto vocoder, autotune e riverbero a go go… un te preoccupa guaglio’, ce sta o’ mar’ for’ ce sta o’ mar’ for’.

Voto 4

Sangiovanni – Finiscimi
San Giovanni scopre l’inganni dicono a lu centro de lu munnu. Te ce sei vestito pure de bianco. Come nella barzelletta ce manca solo compare Zappittu. NCS. Tradotto non ci siamo.

Voto 4

Fiorella Mannoia – Mariposa
La Mannoia non si discute. E un po’ come Sanremo si Ama. A prescindere. Ha certo avuto canzoni migliori ma sta ballata ci piace. Regina.

Voto 8.5

La Sad – Autodistruttivo
Famo anche no… Oppure un classico io Boh. O ancora è arriatu pensece… finto trap punk da scappati di casa. I Sex Pistols lo facevano 50 anni fa. Verrebbe da dire Perche? Perche? Il punk è cosa seria. Ragazzi, please.

Voto 3

Irama – Tu no
Te passo il fatto che almeno canti e non usi l’autotune. E già per questo almeno meriti un minimo di sufficienza. Però per capire quello che canti ci vorrebbero i sottotitoli fiju mia. Il titolo dice tutto: TU NO. Ma meno male che non ci sta Ultimo.

Voto 5.5

Ghali – Casa mia
Che Ghali non sappia cantare lo sapevamo già. Ma che scrive spesso cose giuste e belle questo sì. Chiari i riferimenti alla situazione mediorientale con la sua solita delicatezza: “Casa mia, casa tua che differenza c’è?”

Voto 9 per il testo Voto 6 per l’autotune. Se volemo fa la media famo 7 e stamo  in pace.

Negramaro – Ricominciamo tutto
Sono i Negramaro. Il loro stile, i loro suoni, le loro canzoni. La voce di Sangiorgi super per una ballatona un po’ Coldplay un po’ Muse. Comunque bravi.

Voto 7.5

Annalisa – Sinceramente
Un po’ come Con le mani ciao ciao con i piedi ciao ciao, discopop anni ’80. Singolo radiofonico e ruffiano. Come i pinguini di Madascar il ritornello Quando Quando Quando è vagamente ipnotico. Ma almeno lei canta.

Voto 6.5

Mahmood – Tuta gold
Più che dischi platino direi di platano (come i minons Banaaanaaa). Pezzo super ruffiano. E come tutti i trap rap non si capisce una mazza di quello che dice. Arriva sul podio in top 5. Però stona un poco. “Cambio numero 5 cellulari nella tuta gold Baby non richiamerò…” un po’  come va come va come va papà.

Sorry Voto 4

Diodato – Ti muovi
Il suo stile pulito. Il suo incedere elegante. Diodato è un grande autore e musicista. Canta e si sente tutto. Classe.

Voto 8

Loredana Berté – Pazza
Rock sempre. Bella canzone, belle parole. In pratica la sua storia, la sua vita, la sua incredibile carriera. In una parola, Lei. Non si può dire nulla alla Berté. Però stasera la voce non va.

Voto 6.5

Geolier – I p’ me, tu p’ te
Napule è mille culure. Napule è mille paure. Napule è a voce de’ criature. Che saglie chianu chianu. Apprezziamo la dignità e il coraggio di cantare in dialetto. Bella l’idea di portare il cuore di Napoli sul palco dell’Ariston. Peccato però per la canzone.

Voto 5

Alessandra Amoroso – Fino a qui
La differenza tra chi canta davvero e chi gracchia in un microfono con l’aiuto di un autotune si sente e si vede. Pure se non mi piace e non mi è mai piaciuta, ha fatto vedere a tutti chi sa cantare e chi no. Soprattutto ai leoni da tastiera che l’hanno crocefissa sul web. Ciaone.

Voto 7

The Kolors – Un ragazzo una ragazza
Arieccoli quisti. Dopo averci sfracassato l’estate con Questa non è Ibiza. Prendono il pezzo già vincitore di Sanremo con Daniele Silvestri dal titolo Salirò gli cambiano parole e qualche bit. Giro di chitarra identico. In altri tempi vi avrebbero dato il tapiro d’oro. Copioni.

Voto 3

Angelina Mango – La noia
Porta un cognome pesante. Un fardello che l’ha messa al centro di polemiche e critiche. Niente paura Angelina. Il pezzo spacca. Lei pure. Brava, Brava, Brava.

Voto 8

Il Volo – Capolavoro
Mezzanotte e 08 siamo a metà gara se va avanti così il volo ve lo faccio fare io dalla finestra. Mai piaciuti. Lo so che cantano bene e me tocca daje 7 per le voci. Ma non se possono cantare ste canzoni da ospizio rigenerativo. Daje là.

Voto 7 per le voci

BigMama – La rabbia non ti basta
Con tutto il rispetto me pare la lista de lu mc donald. Big mac, crispy mc bacon. Big Tasty. Ma chi ve li sceglie sti nomi?
Non è questione di trap e autotune è che questi non cantano proprio. Ehy bro…

Voto 5

Ricchi e Poveri – Ma non tutta la vita
Perché  poi ci vuole un gran coraggio a salire sul palco alla loro età. E nonostante tutto (50 anni di carriera) le voci ci stanno. Grande stima.

Voto 6

Emma – Apnea
In Apnea ce  stamo noi che so’ mezzanotte e mezza e ancora non emo finito. Me state affà venì voja de fa come Anakin al tempio Jedy. Emma stile meno tarro più funky the tarro. Mi dispiace ma la canzone non ci sta.

Voto 6.5

Renga Nek – Pazzo di te
Renga e Nek se stanno a divertì, non è che poi abbiano bisogno de fa Sanremo. Avranno fatto un favore ad Amadeus. Speramo che non fanno come Bugo e Morgan. Canzone Sanremese per i Sanremini.

Per la canzone Voto 7 meno meno. Perché 6.5 me pareva brutto.

Mr.Rain – Due altalene
Cuori e lucchetti, altalene e stelline. Trionfo della banalità. Lanciate i baci perugina leggete i messaggi e magnatece i cioccolatini.

Voto 6

Bnkr44 – Governo Punk
Se che’ robba! Avrebbe detto mia nonna. Ma io ve ce chiuderei dentro un bunker. C’ha (con H) da fa’ chi ve ce fa canta. Brutti sporchi e cattivi; se lo volete almeno, che ne so’,  fate un rutto sarebbe già  un inizio. In confronto i The Kolors sembrano il trono di spade.

Voto 2

Gazzelle – Tutto qui
Eccone un altro che pare Ultimo. Va beh,capiteme so’ le una de notte. Ci mancava il ciao mamma finale a completare il quadro. Almeno questo canta, non snatura il suo essere cantautariale, ma not my cup of tea.

Voto 5.5

Dargen D’Amico – Onda alta
A questa ora della notte un po’ di sveglia ci sta. Come pure un cantante che prende una posizione sulla questione in medio oriente. Attento D’Argen che magari gli animalisti te fanno causa per maltrattamento agli orsetti di peluches che tieni sulle spalle.

Voto 7-

Rose Villain – Click boom!
Sarà colpa de sti fiori e de ste rose ma se l’anno scorso avevamo Rosa il Chemical, st’ anno per apparà le quote rosa c’avemo la Villain. La voce c’è, la canzone un po’ meno. Anzi molto meno.

Voto 5.5

Santi Francesi – L’amore in bocca
Qualcuno me deve spiega’ perché i santi francesi? Ma quelli italiani che vanno fatto? Lu poru sant’ Antonio per esempio? E S. Francesco e S. Benedetto ? Pe lu nome meritavate 4. Però però se non è perché so le 1.23 il pezzo ci sta. Anche se la strada è lunga comunque sufficiente.

Voto 6

Fred De Palma – Il cielo non ci vuole
Che bello il riverbero di autotune. Ma perché non lo chiamate il Festival dell’autotune invece che della canzone. Poi spiegateme anche sti cento milioni de visualizzazioni e streaming,  perché, veramente,  come li contate come le figurine dentro li fustini de li detersivi?

Voto 4

Maninni – Spettacolare
Ma io dico… ma a 20 anni perché cantate le canzoni da vecchi abbracciami abbracciami che tanto è normale stringerti forte è spettacolare. Come lo zucchero sul pandoro. Sul serio?

Voto 5.5

Alfa – Vai!
Sarà anche fresco, simpatico e allegro. Faccia da bravo ragazzo. Canzoncina si e no,  vale quello di prima. NCS.

Voto 5.5

Il Tre –Fragili
1,2,3 fante cavallo e re. So le 2 de notte e non lo pozza provà nisciuno. Non vedo più manco la tastiera. Il fratello di Irama più pettinato. Sufficiente, quasi.

Voto 6 meno meno

E comunque un voto lo do pure a Marco Mengoni. E a Mengoni io je do 10.
Arrivederci per la serata dei duetti.

Baricco e le vibrazioni artistiche di Teatrart

Metti una sera con l’armonia di Alessandro Baricco, aggiungi la bravura del gruppo di aspiranti attori di Teatrart, la scuola diretta dall’attrice di arte drammatica Francesca Di Meo e il gioco è fatto. E allo Zut di corso Cavour dinanzi ad un pubblico delle grandi occasioni sono risuonate le vibrazioni artistiche di due capolavori come Oceano Mare e Castelli di Rabbia del grande scrittore e drammaturgo italiano. 

Alessandro Agnessini, Umberto Broccolo, Francesca Cenciarelli, Luigi Consonni, Chiara Filippucci, Ilaria Frapiccini, Filippo Muzzi, Laura Righi, Barba Rossi, Elisabetta Sfascia, Paola Silveri e Chiara Vitali, hanno fatto rivivere la Locanda Almayer dove è ambientato il racconto Oceano Mare, con tutti i suoi personaggi, che si conclude con un orrendo delitto. 

Il gruppo che ha portato in scena Oceano Mare

Splendida anche la performance del gruppo formato da Lucio Angelini, Corrado Di Bacco, Carla Gambucci, Paolo Gramaccioni, Michela Liviabella, Rita Pucciarini, Silvia Stancati e Filippo Tosti che hanno presentato Castelli di Rabbia, una collezione di storie umane ai confini della realtà e della fantasia che sgorgano dai sogni del protagonista Dann Rail. 

Il gruppo che ha presentato Castelli di Rabbia

Il pubblico ha apprezzato molto questa performance e non sono mancati applausi a scena aperta nei confronti di questi novelli attori che già pensano di lavorare insieme anche in futuro sotto l’esperta guida di Francesca Di Meo e del suo staff composto da Lucia Calderini, Loredana Muzzi, Giorgia Filippucci, Filippo Tosti.

 

La Divina Com’è

Altro elemento di vanto per Foligno è quanto viene commemorato nella lapide collocata «nel XIII di maggio MDCCCLXV» (13 maggio 1865) sulla facciata di Palazzo Orfini, in Piazza della Repubblica, ove si legge che:

«Emiliano Orfini volle divulgata al mondo la Divina Commedia con la prima stampa fatta in questa casa nel quarto mese del MCCCLXII per Giovanni Numeister Alemanno»

così come, più in particolare, nel sito istituzionale  del Comune di Foligno, si legge che:

«La prima copia a stampa della Divina Commedia è stata realizzata a Foligno nel 1472, dal tipografo di Magonza Johann Numeister insieme ad Evangelista Angelini, nella bottega dello zecchiere folignate Emiliano Orfini, ad appena una ventina d’anni dall’invenzione di Gutenberg. Un fatto sul quale storici e bibliofili ormai concordano, e che lega indissolubilmente la città di Foligno al nome di Dante e alla sua opera più universalmente conosciuta» (vedi).

Su tale versione folignate, però, non c’è concordanza. Cito due fonti recenti.

Titola così il Corriere della Sera, edizione di Torino, il 21 luglio 2023:

«Gabriele Lavia a Trino Vercellese: “Dante ci ha insegnato l’italiano ma oggi non lo parla più nessuno” di Francesca Angeleri. Sabato al Festival Città identitarie: “Leggerò la Divina Commedia nel luogo dove fu stampata”».

Si legge poi nel testo dell’articolo:

«Domani alle 21.30 a Palazzo Paleologo a Trino, nel Vercellese, sarà ospite dell’ottava edizione del Festival Città Identitarie. In questa città, cui si deve la pubblicazione della Divina Commedia – fu l’editore trinese Gabriele Giolito de’ Ferrari a stamparne la prima copia nel 1555 e, pare, ad aggiungere l’epiteto “Divina” – , Lavia arriva proprio per rendere omaggio a Dante Alighieri» (vedi).

Titola così AskaNews, il 25 luglio 2023:

«Festival Città Identitarie, tappa a Trino, tra Date Alighieri, Cavour e Riso Amaro».

Si legge poi nel testo:

«Edoardo Sylos Labini, Direttore del Festival: “Per esempio, qui nasce l’arte della tipografia e, per la prima volta, la Commedia di Dante appare con la dicitura ‘Divina’. Quindi la Divina Commedia nasce qui”» (vedi).

Ma se a Foligno si ritiene ufficialmente che la prima copia a stampa della Divina Commedia sia stata qui realizzata nel 1472 da Johann Numeister, da dove escono fuori Gabriele Giolito de’ Ferrari e la città di Trino Vercellese che gli diede i natali?

L’enigma è facile da chiarire ma la faccenda non è altrettanto semplice da districare. Infatti, come si legge su “Wikipedia” (vedi) alla voce “Divina Commedia”, la questione è notoria:

«Il titolo originale, con cui lo stesso autore designa il suo poema, fu Comedia (probabilmente pronunciata con accento tonico sulla i); e così è intitolata anche l’editio princeps del 1472 (quella di Foligno). L’aggettivo «Divina» le fu attribuito dal Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, scritto fra il 1357 e il 1362 e stampato nel 1477. Ma è nella prestigiosa edizione giolitina, a cura di Ludovico Dolce e stampata da Gabriele Giolito de’ Ferrari nel 1555, che la Commedia di Dante viene per la prima volta intitolata come da allora fu sempre conosciuta, ovvero “La Divina Comedia”».

E’ dunque solo una questione di titoli, non di opera in quanto tale, ma ciò basta per indurre in confusione o in ambiguità quando l’argomento viene semplificato per non dire banalizzato.

Ciò premesso, è lecito porsi la domanda: il Comune di Trino Vercellese ed il Comune di Foligno (peraltro entrambe le città appartengono al novero delle “Città identitarie”) sono a conoscenza l’uno dell’altro circa il primato del quale ognuno dei due si vanta, di aver stampato la prima “Divina Commedia”? E mentre Trino Vercellese adotta correttamente lo slogan “Trino, dove la Comedia diventa Divina” (vedi), che fondamento ha il fatto che Foligno, dove la “Comedia” non era ancora “Divina”, possa fregiarsi (vedi) contemporaneamente dell’appellativo di “Divina Foligno”?

Sarebbe il caso, e sarebbe ora, che la questione sia chiarita e che i due Comuni si parlino per concordare una versione coerente e veritiera, rispettosa l’uno dell’altro ma anche di tutti quelli che, queste storie, se le sentono raccontare da ciascuno a suo piacimento.

Con Raimondo a caccia di tesori: ecco chi è l’Indiana Jones dei monumenti perduti

Intervista all’ideatore del portale ‘I luoghi del silenzio’ Raimondo Fugnoli. Spellano, da oltre dieci anni ricerca e pubblica luoghi e monumenti, oltre 5.000, altrimenti destinati all’oblio. Mille i visitatori giornalieri. “I luoghi del silenzio – racconta –  è la Spoon river del nostro passato”

“In questo sito vengono trattati quei luoghi lontani dai centri storici in larga parte abbandonati e spesso sopraffatti dai rovi, dalla vegetazione e dall’incuria dell’uomo. Luoghi di mesto silenzio e rassegnazione, di una situazione perdente di fronte al mondo caotico che ci avvolge e ci annulla. Il silenzio è la caratteristica dei luoghi stessi, isolati dal mondo, a contatto stretto con la natura, e per quanto riguarda le abbazie e soprattutto gli Eremi il silenzio era la forma ideale e perfetta di scoperta di se stessi e di contatto con l’Altissimo. Ho volutamente escluso i centri storici più conosciuti e frequentati, che non hanno assolutamente bisogno di altre pubblicità”.
Inizia così la presentazione a firma di Raimondo Fugnoli, per il sito web da lui ideato e fondato iluoghidelsilenzio.it: un portale nato oltre dieci anni fa e che oggi è conosciutissimo per il suo alto valore documentario.
Fra Umbria, Marche e Lazio Raimondo (insieme a Silvio Sorcini e poi Alberto Monti) cerca – anzi: si fa trovare – da luoghi sconosciuti.

Li fotografa, indaga su di loro e ne restituisce la memoria alla collettività in un portale web aperto a tutti, open data, conosciutissimo da appassionati, studiosi, turisti o semplici visitatori del luogo, che talvolta ignorano i tesori del passato celati a poca distanza da casa.
Nella versione mobile il sito permette una ricerca speciale: non solo per nome ma anche geo-localizzando nella mappa la presenza dei luoghi censiti da questi valorosi ‘cercatori di tesori‘.
“La memoria è il solo strumento che cancella il tempo”: ecco la frase che sintetizza lo scopo del sito.
Abbiamo intervistato Raimondo, spellano doc, sulle origini del progetto, sullo stato delle sue ricerche e sul valore, per sé stesso, di quella che definisce una missione di vita.

Raimondo, quando è cominciato tutto?
Non c’è una data precisa; ho cominciato perché 16 anni fa mi divertivo a fare passeggiate sul monte e mi sono iscritto a un club escursionistico. Partecipavo spesso alle escursioni ma è nato subito un problema. Quando si andava sui monti e si facevano percorsi particolari era inevitabile trovare ruderi, vecchie chiese, paesi e case isolate che attiravano la mia attenzione e spesso chiedevo alla guida di cosa si trattava. Ma non rispondevano mai, non sapevano mai cosa fossero oppure rispondevano vagamente: “è una chiesa, sono vecchie case di contadini, sono ruderi di un castello”. Questa cosa mi disturbava: fare percorsi programmati non doveva solo riempire lo spirito e gli occhi di bellezza ma anche la testa di conoscenza. Ebbi una discussione con queste guide ma risposero che non erano storici. Da lì pensai: “non c’è problema: cambiamo i parametri. Voi andate a spasso e io mi metto a cercare le cose”.

Come è stato scelto il nome?
Mi piacque tantissimo un libro che avevo letto, si chiamava ‘I sentieri del silenzio’. Parlava degli eremi dell’Appennino. Alla fine nella mia ricerca ho incluso molto altro, non solo eremi e abbazie;  così è nato ‘I luoghi del silenzio’

La prima ricerca su cosa l’ha fatta?
Su ciò che mi stava intorno: l’abbazia di San Benedetto, San Silvestro, la mia montagna, casa mia, il Subasio. La chiesa di Sant’Antonio, Gabbiano vecchio: mete che vedevo dal terrazzo di casa. Così ho cominciato a fare le mie ricerche storiche, che in effetti sono molto impegnative.

Non è uno storico di professione dunque
Ma no! Sono un ‘ignorante di professione’, mi reputo tale. Sono francescano e nella mia umiltà riconosco la mia ignoranza. L’unica cosa che mi spinge a cercare e mi dà la carica è la curiosità, che muove tutto. La cosa più facile è andare sul posto e fotografare. Spesso neanche questo è semplice, perché quasi sempre i posti di cui mi interesso sono chiusi e devo adoperarmi per riuscire a trovare le chiavi. Quando impiego la mia mezza giornata per fare la visita e scattare le fotografie del percorso allora lì comincia il lavoro vero: bisogna cercare le notizie storiche in biblioteca, negli archivi; bisogna leggere e informarsi molto, parlare con chi ne sa più di me.

Un lavoro fra ricerca bibliografica e fonti orali
Si, ascoltando persone sul territorio che hanno già fatto ricerche e che vivono i luoghi. Se mi fanno domande sul monte Subasio rispondo io, ma se vado a Terni o Città di Castello sono un estraneo e se trovo una persona di una certa età e con un certo bagaglio culturale e di conoscenza e mi parla di certe cose, per me la ricchezza è quella. Poi la mia parte la faccio. cercando più testi di riferimento possibili. Gli autori sono spesso discordanti o parziali nelle loro ricostruzioni. Allora assemblo le notizie per dare un’idea ampia della situazione. Di tempo ce ne vuole tantissimo, ho impiegato anche 5 anni per gli argomenti più complessi. Compilo 4–5 schede contemporaneamente: man man avvio le ricerche e poi assemblo i dati e cerco di definirne una alla volta. 

Quale filosofia la guida?
Per me il portale è una missione. Quello che faccio non è per me e basta. Certo, mi piace, ma lo faccio per gli altri. Per preservare la memoria delle cose, i luoghi diventano eterni solo attraverso il loro racconto. Il mio lavoro può servire a un ragazzo che va a scuola, ai bambini che vogliono conoscere il territorio, alle scolaresche che vogliono fare ricerca, agli studiosi che vogliono vedere gli affreschi di un luogo chiuso o crollato, l’architettura e i dettagli di certe strutture. Ai giovani laureandi che spesso mi chiamano io fornisco tutto: fotografie, testi. Li trovano anche sul sito, perché in fondo a ogni mia ricerca metto la bibliografia dove cercare ulteriori informazioni; purtroppo non posso fare un testo di 30 pagine, ogni descrizione deve essere fruibile.

Oggi il portale è molto conosciuto, Quante visite conta e da dove? 
Credo che il dato più rilevante sia la presenza giornaliera, per capire se fornisco un servizio soddisfacente alle persone. La media è di 1.000 visitatori al giorno; ci tengo ad aggiungere che sono stato il primo ad utilizzare Facebook per far conoscere chiese eremi ed abbazie; ora quasi tutti lo fanno. Mi piace pensarmi come un virus che ha diffuso contagio culturale, di questo sono fiero e non mi concentro solo sulle immagini ma sull’approfondimento testuale. Di gente che mi scrive ce ne è tanta. Anche dall’estero. Alla citazione devo dire che ci tengo, ma le cose le do a tutti gratuitamente, perché so di essere utile a qualcuno. 

Non sono io che li scelgo, sono i luoghi che scelgono me (…) Questo approccio di ricerca mi fa pensare all’antologia di Spoon River: il viandante che entra nel cimitero non cerca; sono i morti che escono dalle tombe e gli raccontano la propria vita, i loro fallimenti, le loro fortune. Queste chiese, questi eremi, questi luoghi particolari mi chiamano; io sono lì a guardarli e si aspettano che li commemori.

Come sceglie i siti che censisce?
Non li scelgo io, sono loro che scelgono me. Mi dirà che sono pazzo. Non è così. Parto per andare su un territorio dove c’è qualcosa che mi incuriosisce e man mano escono fuori decine di luoghi e manufatti da raccontare. Sistematicamente vado per indagare una cosa e mi ritrovo che ci devo ritornare 10 volte perché ci stanno tanti luoghi che ‘chiedono aiuto’, che vogliono essere raccontati. Questo approccio di ricerca mi fa pensare all’antologia di Spoon River: il viandante che entra nel cimitero non cerca nulla; sono i morti che escono dalle tombe e gli raccontano la propria vita, i loro fallimenti, le loro fortune affinché lui ne conservi la memoria. Il protagonista parlava con i morti, io parlo con gli edifici dimenticati. Questi luoghi particolari mi chiamano e si aspettano che li commemori. Questo faccio. In qualche modo, eternandoli e rendendoli ancora vivi. Un rudere in mezzo al bosco cadrà e non ci sarà più tra qualche anno. Ma il fatto di avermi incontrato gli garantisce che comunque resterà nella memoria.

Quanti siti ha raccontato finora?
Direi cinquemila o forse più. Il sito copre una vasta serie di luoghi e monumenti: abbazie, chiese romaniche, eremi, castelli e qualche volta ambienti naturalistici particolari da scoprire. Una forra una cascata, un percorso interessante. Con me altri due soci, uno – Silvio Sorcini – che collabora alla recensione di luoghi fra Umbria e Marche e un altro che si occupa del Lazio, autore di un libro sull’eremo di San Silvestro di Collepino, Stanislao Fioramonti. È entrato a far parte dello staff e manda quasi settimanalmente le schede dal territorio del Lazio, di cui è grande conoscitore

Il calendario perpetuo di Santa Pudenziana – tratto da iluoghidelsilenzio.it

Tra i tanti luoghi ce ne sono alcuni rimasti nel cuore?
Tutti colpiscono perché ognuno ha una caratteristica particolare e riflette culture lontane, quando non si costruiva nulla per caso e ogni cosa aveva un preciso significato. Non solo l’edificio ma anche le pietre andavano messe in un certo modo. Le chiese medievali avevano un orientamento, una posizione, un essere sul territorio connesso a un significato profondo. Conoscenze che abbiamo perso ad esempio sull’architettura antica, sulla posizione delle degli astri, del sole e delle stelle. Nel Narnese ci sta la chiesa di Santa Pudenziana, templare, meravigliosa. Sulla facciata c’è una pietra che era un calendario perpetuo. Ciò significa che un contadino dell’epoca, che non sapeva né leggere né scrivere, guardava in alto quando andava alla messa, osservava il calendario e sapeva con precisione, in quell’anno, che giorno veniva la Pasqua. E la Pasqua era condizionante per tutti i lavori agricoli. Il calendario perpetuo lo sapevano leggere tutti; poi siamo arrivati noi con la nostra scienza, la nostra conoscenza, la nostra intelligenza. A non saper più nemmeno che c’è scritto su quella pietra.

Sui templari diceva che sta indagando in questi mesi…
Sono già 7–8 anni… ho scoperto un filone di possessi templari nella zona di Monte Cucco. Andarono sotto inquisizione nel 1310. Scapparono e ovviamente al processo non si presentarono. Da qualche anno grazie a delle persone che stanno nella zona di Gualdo, Costacciaro, Purello sto facendo questa ricerca per censire le testimonianze. In certe zone  magari resta una piccola traccia, una croce patente, che fa pensare ai templari, mentre in altri luoghi tale presenza è ampiamente documentata. 

Ci sono dei luoghi che non è riuscito a raccontare?
Si, posti dove non sono riuscito a entrare ce ne sono eccome. In effetti sono parecchie le chiese, specialmente dopo il terremoto, puntellate e off limits. Come quella di San Callisto sopra a Cesi. Da anni abbandonata. Può essere rischioso andare in luoghi del genere, nel tempo mi sono infilato in certe strutture che nemmeno i topi, proprio a pericolo crollo. Molti degli edifici che abbiamo raccontato sono andati distrutti, oggi non ci sono più. Su tutti San Benedetto di Norcia, oppure la chiesa di Campi di Norcia, San Salvatore.

Quanto all’immediato futuro?
È sempre una gran soddisfazione uscire con una pubblicazione completa. Adesso sono impegnato nella ricerca storica sui templari per la quale servirà almeno un mese e sono felice mentre la svolgo. Dovrò andare alla Chiesa di San Francesco di Costacciaro dove recentemente sono emersi i resti di un affresco interessante e poi andrò nella montagna folignate: quasi del tutto raccontata ma manca il castello di Percanestro, da documentare appena possibile.

Alla luna

Non so come ti chiami. Sul tuo volto la paura. Le guance solcate dalle lacrime. Ti agiti. Tremi. “Sono una paziente psichiatrica”, mi dici. Nulla vale a rasserenarti, a tranquillizzarti. Sulle mani i segni, profondi, delle ferite: il tuo grido di aiuto. Il sangue rappreso. Vuoi scappare, vuoi fuggire.

Eppure, resti seduta. Sulla soglia, tua mamma ti rivolge un ultimo sguardo. Nei suoi occhi la stanchezza, la fatica, il dolore. Nei suoi occhi, solo la speranza, la fiducia, l’amore. Incondizionato, gratuito. Non ti lascia da sola. Attende silenziosa la tua scelta: arrendersi o lottare.

Arrivano i fogli, le fotocopie dell’esame. Tremi. In silenzio. Impugni la penna e cominci a scrivere. A capo chino inizi a scrivere, senza sosta. Il piede tamburella a terra. Le parole scorrono sulle righe: il loro tratto, insicuro, tradisce il tremore, fragile, delle tue mani.

Ti alzi, consegni. Hai scritto tutto: hai scritto tutto bene, scoprirai. Avevi studiato, lo sapevi. Dovevi solo dimostrarlo a te stessa. Hai vinto, guerriera coraggiosa.

Sanremo e mia nonna rock

Mia Nonna era Rock. Rock come i jeans di Bruce Springsteen sulla copertina di Born in the USA. Come la linguaccia di Mick Jagger, come la chitarra di Eddie Van Halen. Rock, come la voce invincibile di Freddie Mercury. Oltre ai mesi estivi, mi era permesso dormire da lei solo a febbraio, quando cominciava il Festival di Sanremo. Per lei non esisteva altro. Erano 5 serate fisse su Raiuno. Pure se il prete la chiamava per la messa. Niente, c’era Sanremo. E punto. E basta.

Nonna, ha sempre amato la musica, mi raccontava che il primo Sanremo fu “della” radio. La teneva in salotto, la radio, una grande scatola marrone con due manopole e anche se non funzionava più, lei la teneva perché, diceva, faceva arredamento. Su mia nonna e la musica potrei scrivere un libro intero. Come quella volta che, a quasi 90 anni, si mise la bandana in testa e cominciò a cantare Certe Notti di Ligabue.

Nonna è sempre stata Rock. Un rock’n’roll di quelli veri. Di quelli che il riff ti fa saltare sulla sedia. È sempre stata rock, Nonna. Era rock anche quando si vestiva col cappotto dal collo di pelliccia per andare alla messa, era rock quando a Natale cucinava per 20 “cristiani”, era Rock nonna. Lo è sempre stata. E forse è stato il disco più bello che mi abbiano mai regalato in tutta la mia vita. Un disco che oggi maneggio con delicatezza, perché non voglio perdere tutti i ricordi e allora li scrivo, così mi possono rivivere quelle sere con lei dove tutto, anche le stelle, mi sembrava di più. È come mettere il disco sul piatto, abbassare la puntina, sentire il fruscio, chiudere gli occhi e sprofondare nella musica. Nonna era rock, ma Sanremo lo guardavamo io e lei. E sempre insieme.

Quando Vasco fece scoppiare il delirio nel 1982 con “Vado al massimo”, Nonna disse: “Un sucitone, ma me piace”, disse così anche di Zucchero.

E di tutti quelli che poi sono diventati strafamosi. Solo la Pausini e Ramazzotti le piacevano meno perché diceva che “cieno la lagna”.

E così, tra la sigla e le scale, il Teatro Ariston che in Tv sembra grandissimo, tutti quei signori con la cravatta, io e nonna sognavamo di andarci e… come sarebbe stata bella Nonna su quella poltrona. Noi sognavamo di andarci dalla poltroncina di casa: con i nostri pigiami felpati, le babbucce e la coperta parlavano di musica. Parlavamo di musica mentre guardavamo qualcosa che sembrava musica, tra un biscotto al vino, una ciambellina all’anice e un cioccolatino sciolto nel latte tiepido.

Era Rock Nonna. Si arrabbiava sempre perché i suoi cantanti preferiti non vincevano mai. Si arrabbiava, ora con “Maikke Bongiorno”, ora con Pippo Baudo. Quando diventai grande e prima di diventare chef, lavoravo come giornalista musicale. Andai spesso a Sanremo per il festival come inviata. Nonna mi aspettava alzata. Aspettava sempre la mia telefonata dalla sala stampa, dove noi sapevamo prima il vincitore, mentre in tv davano la pubblicità. Nonna mi aspettava sempre alzata e io le dicevo chi aveva vinto. Nonna era Rock, ma le piaceva Sanremo.

Sarebbe stata bellissima seduta tra i velluti dell’Ariston. Scusami nonna, te l’ho sempre promesso, ma non sono mai riuscita a portarti. Nonna era rock. Lo era davvero e questo disco della memoria si ingarbuglia con le stelle.

E, sai com’è, certe notti in Italia, quando arriva Sanremo, non posso fare altro che pensare a lei. Ai suoi biscotti sbilenchi al profumo di anice, a quel cioccolatino sciolto nel mio latte. Alla nostra poltrona rossa. Perché certe notti “sono notti, la strada non conta, e quello che conta è sentire che vai. Certe notti sono come quel disco che fruscia. Certe notti, sono solo notti con qualche nota in più”.

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Un’inaspettata svolta nella carriera del carabiniere che non riconosce Mattarella

Ancora ai nostri microfoni, il carabiniere che non riconosce il Presidente Mattarella viene informato di un drastico cambio di residenza. Come l’avrà presa?

Discriminazione di una disabile in una scuola di Foligno

È a firma di Salvatore Nocera, presidente del Comitato dei Garanti della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) la denuncia di un grave fatto accaduto a  Foligno, dove “un’alunna con disabilità certificata “non grave”, frequentante la scuola media, sarebbe stata esclusa dalla partecipazione alla visita di istruzione in Spagna.

Nel racconto di Nocera si spiega come la scuola avesse organizzato dal 31 gennaio al 7 febbraio un viaggio di istruzione per una settimana in Spagna. Quando la famiglia dell’alunna chiede l’iscrizione – racconta il presidente –  la scuola esprime una serie di obiezioni, sostenendo che avrebbe avuto problemi di disagio, dovuti alla mancanza di autonomia e che in quella scuola spagnola non si applica l’inclusione scolastica; che durante quei giorni, insomma, sarebbe stato meglio per l’alunna rimanere a scuola per un breve corso di recupero.

Una risposta dopo la quale la famiglia si rivolge al Garante Regionale per la tutela delle persone con disabilità.
Il Garante  contatta la scuola, che però ribatte affermando che il viaggio non è di istruzione, ma un “viaggio di studio” e che quindi, come tale, non è previsto dal PEI (Piano Educativo Individualizzato)”.

Il Garante invia una nota all’Ufficio Scolastico Regionale, facendo presente che nessuna norma riporta la distinzione tra “viaggio di istruzione” e “viaggio di studio”. “La normativa – specifica Nocera – prevede altresì il diritto pieno di inclusione scolastica e tale violazione comporta discriminazione ai sensi della Legge 67/06 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilita’ vittime di discriminazioni). La normativa – continua il presidente del Comitato dei Garanti della FISH – prevede la possibilità di “accomodamenti ragionevoli”, onde evitare la discriminazione e cioè che la ragazzina sarebbe stata accompagnata da un familiare e che avrebbe seguito le attività di studio secondo tempi e modi concordati coi docenti.

“L’Ufficio Scolastico Regionale si dichiara disponibile a questi accomodamenti ragionevoli, ma la scuola si rifiuta decisamente, dicendo che l’alunna avrebbe svolto a Foligno un breve corso di aggiornamento e diffidando la famiglia dall’insistere. Quest’ultima, allora, promuove ricorso al TAR (Tribunale Amministrativo Regionale), chiedendo la sospensiva dal divieto di partecipazione e il TAR, in via urgente, senza valutare affatto gli accomodamenti ragionevoli proposti, nega la sospensiva. A questo punto la famiglia chiede il programma di aggiornamento da svolgere a Foligno, ma la scuola non dà seguito e la classe il 31 gennaio parte, lasciando la ragazzina in aula” dove svolgerà quelle poche attività possibili con la presenza di 5 alunni su 22

Ritengo questo fatto veramente grave – spiega Nocera – per il reiterato diniego di “accomodamento ragionevole”. Infatti, il problema del disorientamento della ragazzina se fosse stata sola era stato superato con l’offerta della famiglia di accompagnarla. Riguardo poi alla frequenza del corso di spagnolo – impossibile, essendo vietato ai docenti di sostegno di seguire l’alunna durante le lezioni -, sarebbe stata superata tramite attività didattiche rivolte alla ragazza dai docenti che non potevano seguire la classe. La ragazza stessa, però, avrebbe seguito la classe in tutte le altre attività culturali, quali visite a monumenti, a musei e ad altre località. Ritengo a questo punto che la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) debba intervenire per stigmatizzare pubblicamente questo comportamento discriminatorio, sostenendo la famiglia in tutte le sedi, politica e legale. In altre circostanze, infatti, le scuole hanno cambiato itinerario per rendere l’iniziativa compatibile con la presenza di un alunno con disabilità. In alcune addirittura i compagni, per solidarietà, si sono rifiutati di partecipare alla visita di istruzione. Non ci saremmo aspettati tanto dalla classe, ma un accomodamento ragionevole dalla scuola sì.Questa scuola, invece, non ha assolutamente voluto tener conto di alcun accomodamento ragionevole e quindi la famiglia merita certamente un intervento di sostegno antidiscriminatorio.

Video intervista al carabiniere che non riconosce il Presidente Mattarella

Non è stato facile rintracciarlo e convincerlo a parlare, soprattutto in seguito al gran rumore prodotto dal video che lo riprende di spalle al colloquio con un’anziana manifestante mentre afferma di non riconoscere il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. L’occasione era quella di una manifestazione pro-Palestina tenutasi a Milano sabato scorso, l’attivista cercava un confronto dialettico con il carabiniere, il quale non si è tirato indietro affermando di non riconoscere il Presidente Mattarella.

Ai nostri microfoni, il carabiniere ha fornito il proprio punto di vista al riguardo spiegando che si trattava tutto di un malinteso…

Il birillo dei Vagabondi

Una volta volta siamo andati a piedi da Cesi a Cesi. Così siamo rimbalzati tra due sponde del biliardo (che forse assomiglia a quello del Gran Caffè).
Capiamoci: a noi Vagabondi piace camminare. Inoltre delle tante Umbrie possibili, ce ne piace in particolare una: quella delle montagne. Che guarda caso ha tanto in comune con quella vera, quella degli Umbri antichi, quella della Regio VI augustea, quella dove tanto gradiva camminare anche quel girandolone del Santo d’Assisi.


Così, un po’ di rinterzo e un po’ di sponda, partimmo per un viaggio a piedi da Cesi di Terni a Cesi di Colfiorito, che solo per poche centinaia di metri non è di Foligno e neanche dell’Umbria moderna. Così abbiamo camminato nell’Umbria antica, abbiamo superato agevolmente le cime arrotondate dei Monti Martani, dei quali pochi conoscono il nome e quasi nessuno sospetta i segreti; quindi, a sera, abbiamo raggiunto Spoleto. Poi, all’indomani, abbiamo risalito la Via della Spina, sotto la piramide del monte Maggiore e la pioggia battente, rinfrancandoci nel castello di Pupaggi e  trasformandoci da vagabondi in principi, senza il bacio di una principessa, purtroppo. Così, alla fine di questo viaggio bizzarro dove gli estremi combaciano, abbiamo svalicato e siamo arrivati a Cesi, quell’altro.

Ci sembra di averlo vicino, molto vicino, il nono (o il quinto) birillo (insomma quello centrale), ogni volta che camminiamo nell’Umbria vera, quella delle montagne, dei paesi vivi e di quelli abbandonati, delle meraviglie, dei segreti e della bella gente d’Appennino

Di rimbalzo siamo però subito rientrati nell’Umbria geografica, nel paese di Colfiorito, sull’altipiano della grande madre Cupra, delle saporite osterie e delle gagliarde feste d’agosto un po’ celte e molto appenniniche. Qui abbiamo incontrato uno scrittore che si faceva tutta, ma proprio tutta l’Italia a piedi per suo sollazzo. L’abbiamo battuto a calciobalilla e gli abbiamo rivelato il segreto del ciauscolo, che in realtà è Nutella di porco. Perciò ci disse: seguitemi! Ma noi non potevamo e non volevamo uscire dai nostri sacri confini. Così, in parte siamo rimbalzati a Visso e verso i Sibillini, in parte siamo precipitati verso Foligno per il sasso di Pale, cercando di evitare di finire in buca.


In tutto questo bel gioco, dispiace dirlo, ma il centro del mondo ci è apparso affatto stabile e secondo alcuni, davvero, (ma non ve la prendete) non sta nel Gran Caffè. Piuttosto ci sembra di averlo vicino, molto vicino, il nono (o il quinto) birillo (insomma quello centrale), ogni volta che camminiamo nell’Umbria vera, quella delle montagne, dei paesi vivi e di quelli abbandonati, delle meraviglie, dei segreti e della bella gente d’Appennino che balla (qualche volta contro la sua volontà) e che parla come mangia (genuino e saporito).


È proprio qui, in questa viandanza, che ognuno di noi  si accorge – in genere – di portare in tasca il nono birillo e si sente, almeno per un po’, il centro del mondo. Ma in fondo potrebbe anche non essere così e siam pronti a mutar d’opinione, se ci offrite un bicchiere di Sagrantino.

Il Vagabondo della Valnerina

Gian Luca Diamanti

Il Gran Caffè Sassovivo come metafora di vita

Lo guardavamo con grande rispetto, un luogo per i “grandi”, inaccessibile per noi piccoli; non solo l’interno delle sale, ma anche i tavolinetti sotto le logge, che sembravano fare parte integrante del locale e non più uno spazio pubblico. Un locale da accedervi al massimo la domenica, o un giorno di festa, rigorosamente accompagnati dai genitori, per gustare un dolcetto a metà mattinata, gettando sguardi ammirati a quei serissimi e silenziosi giocatori di scacchi.

Poi crescemmo. Io passai dalla pastarella (un diplomatico, chissà perché mi piaceva tanto quel nome) la domenica mattina, dopo la messa, ai primi timidi ingressi nelle sale degli “uomini grandi”: fra tutte – sempre tenuto per mano da mio padre -, nella sala biliardo. Arrivavo appena con il mento all’altezza delle sponde.

Guardavo meravigliato quegli uomini che facevano impazzire le biglie da una sponda all’altra, spedendole nel punto designato con precisione micrometrica, quasi immersi nel fumo delle sigarette che diventava una sorta di nebbia diffusa nella sala.

Crescendo, la possibilità di frequentare quella sala diventava un importante traguardo nello svolgersi della vita: varcare quella soglia da giocatori e non più solo da spettatori era un vero e proprio rito di iniziazione, la fine dell’adolescenza e l’ingresso ufficiale nell’età adulta. Guardavamo Kocis e Ciaravaglia gareggiare con raffinatissima maestria nel contendersi una vittoria che di fatto era il prestigio misurato dal consenso degli spettatori; i quali, io penso, avrebbero perfino pagato per vederli. Li guardavamo con netta convinzione che mai avremmo potuto raggiungere il livello della loro arte. Ma a noi bastava sentirci “adulti” nel vedere Fernando consegnarci le boccette per una partita, invece di bloccarci all’ingresso perché “i ragazzi non possono giocare”.

Io, Vasco Rossi e il termosifone

Alzi la mano chi non ha mai sognato una vita esagerata come Steve McQueen, piena di guai, dove non dormi mai. Insomma, Una vita spericolata?
 Nel 1983 Sanremo lo guardavo a casa di nonna. Ci mettevamo sulla poltrona rossa che era di nonno e giù a commentare il Festival tra risate, frappe e castagnole. Nel 1983 Vasco Rossi cantava sul palco dell’Ariston questa canzone che tutti considerarono allora un fallimento, ma che poi si rivelò essere quella che permise al rocker emiliano di vincere il suo primo disco d’oro.

Insomma, nonna ci aveva visto lungo, come sempre del resto. “Questo è forte”, mi disse mentre si esibiva il Blasco. In realtà la prima volta fu l’anno precedente, nel 1982, con Vado al massimo. Di quell’esibizione a memoria di gente si ricorda la ribellione di Vasco Rossi, che non solo cantò fuori sincrono in dispetto al playback imposto dagli organizzatori ma abbandonò il palco portandosi via il microfono.  Altro che Bugo e Morgan.

Se questa è storia, ce n’è un’altra che vorrei raccontare. Siamo nel 2005. 
Sanremo pullula di star e Paolo Bonolis, allora conduttore, chiama Vasco Rossi come super ospite della serata finale. “Questa sera si vivrà un’altra emozione forte”, disse in apertura. “L’emozione di un grande ritorno, un ritorno importante, che per me è motivo di gioia immensa”, dirà il conduttore in apertura di serata.
L’arrivo di Vasco in riviera scatenò un’isteria generale tra i giornalisti della sala stampa. Vasco non concedeva interviste. Niente. Niet. Caput. Zero. L’ufficio stampa di Vasco era stato molto chiaro: “Vasco non parla e non parlerà con nessun giornale”. Nessuno sapeva dove alloggiasse, per quanto ne sapevamo poteva anche essere a Nizza o Ventimiglia. Su dove fosse il Blasco c’era riserbo assoluto.

Feci il giro degli hotel chiedendo a tutti il favore di dirmi se per caso Vasco era uno dei loro ospiti. Provai persino con nomi tipo Pocaontas, o Biancaneve, un po’ come Hugh Grant in Nothing Hill. Ma niente. Ero disperata. Dovevo trovare il modo di strappare a Vasco Rossi una intervista così la poteva avere solo il mio giornale. Insomma, avrei avuto uno scoop. Più che scoop giornalistico, però, ebbi un scoop di gelato, disperatamente seduta sulla panchina del porto sotto il sole tiepido della città dei fiori. La mia ultima speranza era riposta all’Hotel Royal. L’ultimo della lista. Con manovre di corruzione degne dei politici più consumati, cercai di convincere il povero usciere a dirmi la verità, se Vasco fosse alloggiato lì o no.

Stordito da una quantità di domande a raffiche di mitra, da un’interpretazione teatrale da Oscar (del resto è un vizio di famiglia, visto che mia sorella è una attrice) alla quale mi abbandonai piangendogli davanti “mi scusi ma se non porto questa notizia mi cacciano dal giornale”, (a saperlo che non mi avrebbero rinnovato il contratto col cavolo che lo rifarei). Comunque l’usciere, impietosito da cotanta disperazione, mi fece l’occhiolino e mi disse “suite”.

Poi con la mano fece il segno del 5. Entrai nel tornello dell’hotel come Clark Kent quando diventa Superman. Salii al quinto piano. Il corridoio finiva in poche suite, tutte a portata di vista da un angolo dietro lo stipite della porta dove c’era un termosifone, una finestra e una bella tenda dove mi sarei potuta nascondere, saltando fuori al momento opportuno per strappare a Vasco almeno una battuta.

Non ricordo quanto tempo rimasi accucciata dietro allo stipite con le ginocchia sulla moquette, con lo spigolo del termosifone (caldo, per altro) conficcato nel fianco. Quando si apre una porta e…Siiiii!; come Gollum con il suo “Tessoro, tessoro, tessoro”. Dalla stanza a fianco uscì un bambino tutto vestito elegante, con un pupazzo a forma di mucca tra le braccia (maledetta mucca!). No. Bambino, no. Sono tre ore che sto qui, non puoi farmi questo. Mi indica col dito e sulle prime non dice niente. Cerco di fargli cenno di stare zitto.  Zitto, per carità! Che oltretutto non mi sento più le ginocchia. Il bambino, posseduto come nell’invasione degli ultracorpi, punta il dito e, urlando per il corridoio, fa uscire tutti dalle suite gridando che

“nascosta in ginocchio, dietro la tenda vicino al termosifone, ci sta una signora che vuole mangiare la mia mucca!”

Maledetta mucca, ma chi ha detto niente della mucca. Ovviamente il casino fu tale che uscirono tutti dalle stanze, Vasco compreso, e con lui l’addetta stampa che mi invitò caldamente ad andarmene. Maledetta mucca! Alla fine Vasco salì sul palco. “Una volta scappavo”, disse Rossi, “sono tornato a Sanremo perché ti voglio riconsegnare il microfono che ho portato via vent’anni fa”.

Mentre Vasco intona Vita spericolata e tutta la sala stampa si unisce in un coro di abbracci e canti, nella mia testa serpeggia la canzone della mucca Carolina. Altro che vita spericolata, vita esagerata come Steve McQueen, piena di guai, dove non dormi mai. Il quel caso, quel giorno, la mia vita fu più come un misto tra Valerio Scanu, “in tutti i laghi in tutti i luoghi”, e Povia con “le mucche fanno muuu”, ah no, erano i bambini. Insomma, maledetta mucca. Fosse stata almeno quella di Atom Heart Mother.

(Immagine di copertina via Vasco Rossi, rekord botëror në shitjen e biletave për një datë të vetme koncerti | Portali Vizion)

Atletico Foligno in campo domenica, le ragazze: “Vogliamo rimanere in Serie A”

Domenica 4 Febbraio ore 16, al Palapaternesi l’Atletico Foligno affronterà in casa il CF Pelletterie in uno scontro “dentro o fuori” per restare nella massima serie.

Una domenica di futsal, non certo come le altre; le giovani atlete della squadra femminile folignate vorranno continuare a dire la loro nel calcio (a cinque) che conta: ma “c’è bisogno di tutto il supporto che la città può darci”, parola della presidente Maria Serena Piorico.

“Foligno ha l’opportunità di vivere una realtà sportiva di serie A, ci teniamo a dire che veniamo da qui. Quella di domenica sarà una partita-chiave, alle ragazze serve tutto il morale possibile”.

Il 26 aprile del 2022 la Serie A italiana femminile di calcio a 11 entra nel mondo del professionismo, ma le realtà locali – lontane dai riflettori – devono fare i conti con obblighi societari serrati; senza beneficiare, beninteso, delle entrate economiche necessarie a mantenere titolo e blasone. “Le cifre che possiamo investire” continua Piorico “si aggirano intorno ai 70–80mila euro annui, mentre i top club del nostro campionato arrivano a spenderne anche 400mila. Facciamo parte della lega nazionale dilettanti, ma le regole sono ferree. Un esempio? Siamo obbligate a mantenere un settore giovanile, abbiamo un bel gruppo under 15 ma ci sono conti da far quadrare”. Con 350 abbonamenti venduti lo scorso anno, l’Atletico Foligno fa dell’autopromozione e del volontariato un caposaldo della propria gestione.

“Ci aspettavamo un’attenzione diversa da parte degli sponsor, è un peccato perché la squadra rappresenta il brand cittadino ad alti livelli”.

Che il gioco proposto dalle calciatrici di Maria Serena azzeri le distanze culturali (e kilometriche) – promuovendo Foligno nel mondo – lo prova il tesseramento di Nanako Harakawa, talentuosa atleta nipponica arrivata quest’estate dalla terra del Sol Levante. “Non avendo a disposizione grosse cifre per il mercato – continua – ci affidiamo agli osservatori, che viaggiano in cerca di giovani promesse”.

Video

Il messaggio è forte e chiaro: alla squadra serve che la cittadinanza ricambi la passione col tifo, il sudore col supporto, le vittorie con gli applausi. Non meno, in tutta onestà, di quanto serva alla città quell’attenzione mediatica che l’Atletico Foligno ha saputo catalizzare a suon di meriti sportivi. Per usare le parole della vicepresidente Giulia Iavarone, “se non verrete a vederci, vi perderete quello che accadrà in campo”.

Perché rischiare? #iotifosoloatleticofoligno

Trasparenza smemorata

A Foligno, il 13 dicembre 2022, si svolse la “Giornata della Trasparenza”, lo stesso giorno in cui, da calendario, si celebra Santa Lucia, protettrice dei ciechi, delle malattie degli occhi e della vista, e tanto basta ad alimentare l’ossimoro della trasparenza opaca che vige a Palazzo Comunale, a dispetto della propaganda auto celebrativa.

L’ultimo esempio ci viene, mi viene, fresco fresco dall’Area Lavori Pubblici, a firma del fulgido dirigente che Zuccarini ha voluto a tutti i costi ereditare da Mismetti. Quello che riuscì a sostenere e a ribadire che la sola acqua con cui fu effettuata la periodica pulizia abbia potuto corrodere gli elementi bronzei della fontana e monumento “ai Caduti per la Pace” di Ivan Theimer posta in Piazza Don Giovanni Minzoni, senza spiegare che razza di acqua fosse.

Il fulgido ingegnere ha finalmente risposto il 31 gennaio, dopo circa un anno e mezzo, a una mia istanza di accesso agli atti del 26 luglio 2022 per ottenere copia di una ordinanza in materia di segnaletica stradale a cui è seguito un sollecito il 17 dicembre 2023, un mese e mezzo fa. Cotanto dirigente risponde che:

pur a fronte delle numerose ricerche poste in essere, tramite consultazione di elenchi cartacei ed informatici e tenuto anche conto delle interazioni e delle variazioni di competenze, tra le diverse aree di questo Ente in merito alla segnaletica stradale, non è stato possibile, ad oggi, reperire il provvedimento”.

Ovvero, il Comune di Foligno ha emesso in passato ordinanze che però, all’occorrenza, non si trovano più. Oltre alla gravità burocratica della questione, c’è anche quella pratica: infatti, in assenza dell’atto, la segnaletica posta in virtù dell’ordinanza stessa non ha validità.

Sorge spontanea la domanda: quanta parte della segnaletica vigente è nella stessa condizione, ovvero a rischio di nullità per irreperibilità dell’ordinanza con cui è stata istituita? Il segretario generale si è fatto un’idea della dimensione del fenomeno?

Comunque sia, tornando al fatto specifico, come pensa di rimediare, il fulgido dirigente? E’ presto detto:

qualora le ulteriori ricerche in corso, risultassero infruttuose si procederà con l’emissione di specifica ordinanza”.

Ovvero ci si mette una pezza. Domanda: se non si conoscono le motivazioni dell’epoca (circa venti anni fa) contenute nell’ordinanza che non si trova, come si fa ad emetterne una nuova? A recchia? Con un falso ideologico?

Ma c’è di più La precedente ordinanza riguardava, a suo tempo, la tutela dell’accesso carrabile ad un complesso di quello che allora era un “ente pubblico”, ovvero (Wikipedia):

ai sensi della legge italiana“, “un ente costituito o riconosciuto da norme di legge attraverso il quale la pubblica amministrazione svolge la sua funzione amministrativa per il perseguimento di un interesse pubblico“.

Laddove tale “interesse pubblico” non sussiste più, dato che attualmente il possesso del complesso medesimo è detenuto da soggetti privati e di mercato, subentrati o mutati nel frattempo, come si può oggi replicare analoga tutela?

Si può fare con ordinanza un gentile omaggio istituzionale a dei privati, quando tutti gli altri privati devono sottostare alle regole e agli oneri che regolano i passi carrabili e simili?

Sarebbe veramente il colmo. Si attendono sviluppi.

Questione di papere

Gli anatidi hanno una robusta dignità letteraria. Fatte salve la nomenclatura e le sue specifiche puntualizzazioni, preso atto dell’equivoca ambivalenza di oche, anitre e bozzagri, accipitridi pure questi ultimi e, fra l’altro, termine di paragone della tirchieria del babbo di Cecco (che è tutto dire), papere e paperoni abitano da tempo la letteratura. Addirittura, a sentire Livio, perfino Roma ha un debito di non poco conto con le anserine più famose della storia: (e il Machia, che non lo mette in dubbio, “hanno salvato una città”, asserisce senza mezzi termini nell’Arte della guerra e nei Discorsi).

 

E comunque l’oca trova luogo addirittura all’Inferno, giù per la ripa scoscesa nel terzo girone del settimo cerchio: bianca come il burro, penzola al collo di Locco grande usuraio. Fa qua e là, araldica disperatissima, sotto un cielo che piove fuoco. E poco oltre l’anitra che s’attuffa lesta quando arriva il falcone, presta metafora ai barattieri che si ficcano sotto alla pece per non farsi rampionare dai diavoli, cornuti e mazziati. Certo poi di papere nella Commedia non ve n’è più, se si esclude il cigno nella cornice degli invidiosi, su per il Purgatorio, ma il cigno e l’anatroccolo che fu l’è un impiastro e poco ci garba, che è bello e nient’altro. E’ Petrarca che, siccome si vorrebbe trastullare con Laura, tira fuori un cigno nel Canzoniere per dire quanto è impallidito, ma un cigno infatti, uno, un hapax; va bene che Saba paragonerà a una giovane e bianca pollastra la moglie, ma insomma questo accade in un Canzoniere di più di mezzo millennio appresso, e quindi adesso non vale. Boccaccio, invece, lui sì che sdogana le papere: “Non m’è ancora paruta vedere alcuna così bella né così piacevole, come queste sono. Le papere, cioè le femmine: altro che dipinti, palagi e chiese (non s’offendano le femmine; è il padre timoroso per il concupiscibile appetito del figlio, che non ha mai visto mondo, a chiamare papere e mala cosa  le femmine. Lo fa lì per lì, in velocità; ma il figlio se ne infischia e di papera ne vuole subito una).

 

E le anitre del Furioso? E quelle, addirittura, della Liberata, le anitre loquaci della cupa e luminosa Liberata? Via, qualche anatide rispunta sempre, trottando fra poeti laureati che preferiscono animalucci dai nomi poco usati e scrittori accigliati al punto da far prendere a legnate le anitre da Mazzarò, pazzo, che vuole portarsele con sé, nell’altro mondo. Per non dire della candida sorella del Gozzano, la papera più filosofa della letteratura mondiale, che giubila starnazzante senza saperne nulla dell’armi corruscanti della cuoca. La papera, dico, che insegna che la morte non esiste: solo si muore da che s’è pensato.

 

Versatilità simbolica molteplice degli anatidi! Da metafora poetica a baluardo sempre all’erta sul bene pubblico, da allegoria della ricerca spirituale ad emblema di resilienza. Ma anche “un’idea geniale”, come ha avuto modo di dire un livornese schietto, con attinenze importanti ad Interamna e poca propensione a geroglifici filosofici. Le papere sono un’idea geniale. Chi scrive, ha passeggiato con la fèra labronico-rossoverde, ospite una mattina qui in città, e ha disquisito con lui sulla bellezza dei paperoni sotto il ponte di Porta Firenze. Finalmente! E lui, proprio lui, fra stiacciata e panpepato, mi ha detto che le papere sono il simbolo della spensieratezza, al punto di averne voluta una, gigantesca (finta s’intende), all’esterno della sua università. A pensarci bene, essendo alla ricerca vana di una verità politica, mi conviene mettere in proporzione l’incerto con il certo, come faceva Cusano, e vedere se mai giovi una dotta ignoranza. Dicano quello che gli pare, gli ienidi feliformi di mediasettete, ma io fra l’equino di viale Mazzini e i biscioni non ho dubbi: papere tutta la vita!

 

 

Sulle tracce dell’ircocervo

Giuro che c’era, me lo ricorderò finché campo, anche se non c’è stato verso di ritrovarlo l’ircocervo, favoloso animale che partecipa della natura del capro e del cervo. Lo avevano raffigurato in via delle Ceneri con una scheggia di carbonella. O forse in via del Reclusorio. Seppur disegnata con grazia quella chimerica assurdità era brutta come un colpo. Un’iscrizione in stampatello, da prendersi come didascalia, recitava: “IRCOCERVO”.

Dapprima pensai che il graffito fosse destinato ad un gran cornuto che abitasse nei paraggi, poi venni a scoprire che con quel nome era anche definito lo sfruttatore di prostitute, il ruffiano insomma, trovando conferma in Francesco Fulvio Frugoni

“Il Cane di Diogene” VII, 188: “Succedette che un cavalier di Clusia fè per un mandatario sfregiar un ircocervo che gli aveva locata la moglie vaccina a prezzo competente”.

Le ristrutturazioni post sismiche hanno cancellato dagli intonaci i vecchi graffiti, più di quanti volumi abbia distrutto l’incendio della biblioteca d’Alessandria (appiccato dal generale Abu al-Abbas, che il suo dio lo abbia in gloria). Bisogna concedere che erano istruiti i writers di una volta, se è vero che della leggendaria bestiaccia ne scrisse – ispirandosi al “Sofista” di Platone – anche Aristotele nel “De Interpretatione”. A seguire l’ircocervo liberalsocialista fu preso a pretesto da Benedetto Croce per tartassare il filosofo Guido Calogero. E siamo arrivati a metà dell’Ottocento, più o meno quando quello sgorbio fu effigiato sui muri della città dall’oscuro autore.

Ormai dobbiamo accontentarci dei tag creati dai graffitari desiderosi d’insemprarsi, ahimè, persino sulla viva pietra del Subasio della Madonna del Pianto, compatrona della città, protettrice di Foligno dai terremoti ed altre calamità. A chi volesse risalire nel tempo (sia detto per i boomer che mostrino modi di pensare ritenuti ormai superati dalle nuove generazioni) basterà recarsi in via Niccolò Alunno, civico 9, nelle vicinanze del monastero di Sant’Anna. Sul frontespizio di una finestra potrà ancora leggere un datato incitamento a Coppi, il più popolare ciclista di tutti i tempi, prima che anche quel graffito venga cancellato dalle lumacose collette del Superbonus 110% o sostituito da qualche neologismo semantico.

Foligno – Trino: chi è l’uno?

Trino Vercellese è certamente città dantesca. Del resto a quale città italiana si potrebbe negare un fregio dantesco: per il fatto stesso di essere italiana, una qualunque città del nostro paese è dantesca, perché Dante immaginò l’Italia, e ne lasciò a chi venne dopo il progetto, prima ancora che l’Italia fosse. Anzi, ogni nostra città è bene si convinca d’essere prima dantesca e poi italiana. Non ci fosse stato Dante, sarebbero città della penisola italica, ma non sarebbero italiane. Trino ci tiene perché da lì vennero i Giolito, gli editori che stamparono a Venezia, nel 1555, l’edizione della Commedia curata da Ludovico Dolce, nientemeno. Dolce, che nelle stampe veneziane del poema, dal 1512 fino al 1536, aveva sentito più volte proclamare Dante divino, s’inventò che l’attributo potesse far bella mostra dell’opera, oltreché dell’autore e, memore (ma non sono sicuro) del Trattatello,  pubblicò per la prima volta la Commedia con l’epiteto di divina. 

Ludovico Dolce, meschino, con i Giolito da Trino non s’arricchì mai, ma Divina Commedia restò e, da che i cruscanti gradirono, Divina Commedia fu ed è. Foligno però è la città dell’editio princeps: vuol dire che più di ottant’anni prima che i Giolito da Trino imprimessero tanta indiscutibile divinità, i folignati avevano già impresso il poema sacro, sul quale Dante s’era smagrito per anni, dovendo metter mano fra cielo e terra. E c’è un altro fatto, cospicuo. Dolce burla un po’ sul codice della sua edizione, lasciando intendere d’aver fra le mani il codice amalteo, che dovrebbe a sua volta risalire a quello di uno dei figlioli di Dante (epperò non si capisce bene di chi: Iacopo? Pietro?). Il che, al limite, può anche essere: che Giovan Battista Amalteo abbia frascritto, intendo. Ma il codice presenta non poche scorrettezze e per questo, fra l’altro, a me par strano che sia di Iacopo: per quanto un testo propria manu Iacobi Dantis girava e l’aveva avuto fra le mani anche Filippo Villani. Dolce non precisa mai la fonte (che però è aldina: 1515, con varianti frequenti dal Vellutello e dal Landino), non studia da filologo e questo contribuisce allo scarso valore testuale dell’edizione.

Invece l’editio princeps il suo codice di riferimento ce l’ha ed è il Lolliniano 35, uno dei Danti dei Cento. Vince Foligno su Trino? Manco per sogno. Edizione prima e su questo non ci piove, ma  filologicamente fitta di errori. E quindi pareggio? Direi di si. Ma i folignati si possono spassare con certe suggestioni tutte loro, laddove l’operaio addetto alla stampa s’annoia, oppure è stracco, e allora Foligno palesemente diverge dal Lolliniano. Pien di sonno in su quil punto (Inf. I, 11), lolliniano a quel punto. Maculato (33), lolliniano macolato.  Voluntieri (55, come del resto nel canto di Paolo e Francesca, v. 73) , lolliniano volontieri (ma nell’editio folignate volentieri in Purg. IV, 85). Lu loco sancto (Inf II, 23), lolliniano lo loco santo. Succurri (104), lolliniano soccorri. Quisti non hanno speranza di morte (Inf. III, 46), lolliniano questi. Custì (Inf. III, 88), lolliniano costì.   Quil (Inf. IV, 45) lolliniano quel (ancora in Par. XXV, 43 quista);  cusì (Inf. VI,103) per così.  Lu scripse (Inf. V, 137), lolliniano lo scrisse. Vui ciptadini (Inf. VI,  52) per voi cittadini ( vui anche in Inf. VIII, 54 e nui  in Inf. XVII, 119). Unde (Inf. VII, 104) per onde. Ligno (Inf. VIII, 40), lolliniano legno. Sepulcri (Inf. X, 7), lolliniano sepolcri. Custui (65), lolliniano costui. Lu pantan (Inf. XX, 90), lolliniano lo pantan. Turbidi  (Inf. XXIV, 146), lolliniano torbidi. Curata (Inf. XXVIII, 26) lolliniano corata e poco oltre stroppiato per storpiato (v. 31). Qualche perplessità sul succorso di Inf. XXIX, 81) per il consueto soccorso. Lu huom (Inf. XXXIV, 115), lolliniano l’uom. Lu sommo (Purg. IV, 40), lolliniano lo sommo. Suave (Purg. X, 38), lolliniano soave. Per quanto ancora in Paradiso (XXIII, 83) fulgurati per folgorate. 

E si potrebbe anche continuare. Ma allora? Trino o Foligno? Chi è l’uno? Nessun dei due: pari merito. Foligno stampò per prima e Trino disse che era divina. Amen.

Aspettando Sanremo – Terza puntata

Vi ricordate le audio cassette? Quelle che di solito recavano la scritta mixed by… di qualche amico improbabile, del fidanzatino, o di quello che aveva il negozio di dischi e te le registrava gratis? Quello che segue è un po’ la stessa cosa. E visto che a breve si torna in riviera, avrei piacere di presentarvi una compilation mixed by… di tutti gli scandali che hanno attraversato la storia del Festival. Cercate di comprendere la mia posizione. Sanremo è un evento talmente bizzarro e vuoto, e allo stesso tempo pieno di roba,  soprattuto roba inspiegabile, dove Festivalers hanno un desiderio evidentemente insaziabile di mostrare qualsiasi cosa pur di finire sulle pagine dei giornali. E’ chiaro che vale la pena parlarne. Ora io comprendo che siamo nel 2024, e il Festival con tutta la sua aria di colta venerabilità si inserisce di diritto tra le migliori storture italiane, ma deve esserci in quel luogo una sorta di linea temporale a cui seguono inevitabilmente scandali e polemiche.  Sembra un po’ come quella storia degli inglesi che hanno inventato il porridge per rendere interessanti le altre cose.

Tutto è degno di rilevanza, ogni cosa può, anzi deve diventare polemica. In più l’istinto culturale viene soppresso in nome #cantileneindecifrabili,  #brutturediscografiche, artisti che cantano come uno che entra esce da stati di semincoscienza, dondolando la testa come quei cagnolini dietro le auto negli anni 80. Ed e proprio per questo che Sanremo è meraviglioso. Leggendo i resoconti delle scorrerie più lontane nel tempo si potrebbe partire con il 1978 quando in un Sanremo ben più compassato Rino Gaetano pronunciò per la prima volta la parola sesso sul palco dell’Ariston, per passare poi al pancione finto della Bertè che fu “crocifissa” dalla stampa di tutta Italia. La stessa stampa che poi, molti anni più tardi, gridò al “genio” quando lo fece Lady Gaga. Quindi perché scandalizzarsi del bacio tra Rosa Chemical e Fedez? Mica era un balocco? Nel 2011 il festival fu vinto da Roberto Vecchioni, ma nessuno se lo ricorda erano tutti intenti a guardare la  farfallina tatuata là, tra il vedo e non vedo, più vedo che non, di Belen. Ad un certo punto indeterminato della grande immensità del suo passato uscì pure la spallina dal vestito di Patsy Kensit. Ma Belen vinse a mani basse. Povia, quello dei piccioni fanno oh, ah no… scusate erano i bambini, ma cambia poco perché la musica era la stessa, fece scoppiare un putiferio perché dopo i piccioni si mise a toccare i temi caldi come quello omosessualità scatenando le ire di mezza Italia. E per finire,  gli anni d’oro delle crisi isteriche di certi giornalisti che, esclusi dal ruolo di opinionisti nel dopofestival,  hanno dato in escandescenze in sala stampa lanciando Avada Kedavra e anatemi degni dell’oscuro signore di Mordor. Vogliamo parlare del volo di Michelle Hunziker, “un chioppu alla ce senti cerqua” si direbbe a lu centro de lu munnu. Roba che avrebbe animato le discussioni ai tavoli al Gran Caffè Sassovivo per mesi interi.  Se pensate che sia finita qui vi sbagliate: perché un anno ci fu anche il volo degli spartiti. Oppure piovono spartiti, così, per dare un titolo alla serata.

l’affronto più grande Sanremo lo fece a Freddie Mercury. Nel 1984 all’apice della loro carriera i Queen erano i super ospiti. In quegli anni si cantava in playback, ma Mercury per dispetto di quanto imposto dagli organizzatori cantò tutta la canzone Radio Gaga lontano dal microfono screditando la diretta e di fatto riportando all’anno successivo, il ritorno del cantato

L’orchestra e i musicisti  cominciarono a lanciare partiture sul palco in segno di protesta contro il secondo posto di Pupo, Luca Canonici e Emanuele Filiberto. La canzone incriminata era “Italia Amore mio”. Già  si era scritto molto sulla faccenda, e sempre nella migliore tradizione di Sanremo e delle sue polemiche annesse, uscirono paginate intere in cui si gridava allo scandalo e che “Sanremo sarebbe stato il primo passo del “Ritorno del Re”. No. No, non  era Aragorn di Gondor, ma solo il discendete del “lu fugghiatu” Vittorio.

Come dimenticare il Woijitalaccio di Benigni sparato in prima serata tra le grida di indecenza degli incravattati in platea e la faccia costernata di Pippo Baudo. E sempre “lu poru ” Pippo, nel 1995, sventò , grazie alla sua azione persuasiva, un tentato suicidio di un signore che voleva gettarsi dal balcone del Teatro Ariston. Per fortuna andò tutto bene. Ma anche lì siccome non c’è  Sanremo senza polemica né polemica senza Sanremo, qualcuno paventò  l’ipotesi che il suicidio fosse stato addirittura inventato per alzare lo share degli ascolti troppo bassi fino a quel momento.

E se qualcuno (molti per la verità) l’anno scorso ha gridato allo scandalo perchè Blanco ha preso a calci i fiori, forse non ricorda bene quando Brian Molko dei Placebo spaccò la chitarra sull’amplificatore, al coro della platea che gridava “scemo, scemo, scemo” nell’edizione del 2001 condotta da Raffella Carrà.  Che fu anche l’edizione in cui Eminem fece il dito medio a fotografi e platea, cantanto in barba a tutti, procura di Sanremo compresa I’m sorry Puff, but I don’t give a fuck If this chick was my own mother I’d still fuck her”. Sul momento nessuno ci capì molto, dito medio a parte. Il 2001 fu anche l’anno dei Sottotono, il duo Rap italiano, arrivati ultimi e incriminati da Striscia la Notizia per aver copiato un pezzo dei NSYNC.  Finì con pugni e botte in sala stampa con il povero Valerio Staffelli preso a ceffoni e il grande Paolo Zaccagnini a far da pacere.

Ma l’affronto più grande Sanremo lo fece a Freddie Mercury. Nel 1984 all’apice della loro carriera i Queen erano i super ospiti. In quegli anni si cantava in playback, ma Mercury per dispetto di quanto imposto dagli organizzatori cantò tutta la canzone Radio Gaga lontano dal microfono screditando la diretta e di fatto riportando all’anno successivo, il ritorno del cantato. Last but not least dicono gli inglesi l’apparizione di una fantomatica cantante mondiale una certa Katia Bujinskaia (chissà perché a tutti venne in mente la meravigliosa performance di Marcello Cesena dei Broncoviz nei panni di  Irina Skassalkazaja.  La Bujinskaia comunque non cantò mai, venne liquidata con una fugace apparizione al dopofestival. Insomma Sanremo è così difficile da analizzare come il boom degli spaghetti in scatola venduti sugli scaffali di mezzo, o la pizza intinta nel cappuccino dagli americani. Ma… un momento che è successo? Dove è Bugo?

(Vignetta in copertina di Carlo Rampioni)

TardaViaggio Foligno – Gennaio 2024

Ho iniziato ad elaborare il “TardaViaggio” molti anni fa come pendolare, pubblicandolo sul mio sito del NON PENDOLARE,  ora continuo a farlo su scala regionale a beneficio del Coordinamento Comitati Pendolari Umbri. In questo caso l’elaborazione è settimanale e focalizzata sulla puntualità dei treni in arrivo e in partenza alla stazione di Foligno, limitando la casistica a quelli che hanno un ritardo medio, in arrivo o in partenza, di almeno 5 minuti.

Il Frecciarossa passa per Creti: Il ministro Lollo ha prenotato la fermata

Ormai sembra deciso. La moderna stazione che servirà ad agganciare la linea ad Alta Velocità e che prenderà il nome di Medioetruria, verrà costruita a Creti, una frazioncina vicino Terontola. La presidente Tesei ha seguito tutti i vari passaggi dando l’ok definitivo.

Già l’ex assessore regionale Giuseppe Chianella aveva individuato Creti come soluzione ideale per collocare lo scalo ferroviario di Medioetruria. Ed ora anche l’assessore sloggiato Enrico Germini Melasecche, ha messo il sigillo su questa decisione. Dunque fra qualche tempo a Creti si potranno agganciare i Frecciarossa, Frecciargento, Frecciabianca per raggiungere il Nord e il Sud della Penisola.

E mentre si consuma questa decisione, definita da molti assurda, la ferrovia Orte Falconara ha festeggiato più di un secolo e mezzo di vita. Una trasversale che da tempo memorabile attende il raddoppio che, questo sì, determinerebbe davvero lo sviluppo dell’intera regione visto che Roma potrebbe essere raggiunta in meno di un’ora e un quarto. Stessa cosa se si fosse realizzato anche l’ammodernamento della Foligno-Terontola, che avrebbe assunto il ruolo di metropolitana di superficie. Invece di puntare su questa parte centrale del Cuore verde i piani regionali stanno spostando il baricentro ferroviario verso il nord, facendo sfumare così l’ipotesi di una fermata dei supertreni nel luogo naturale che è Foligno che rimane comunque il nodo ferroviario più importante dell’intera regione.

Ed è a questo punto che ci chiediamo: se per l’Alta Velocità si passa per Creti, i passeggeri e l’assessore, per come passano? A proposito, il ministro Lollo pare abbia già prenotato una fermata.

Grande affluenza a Foligno per il formatore Mario Schember.

Alla conferenza sul nuovo codice degli appalti dovevano essere presenti, stando alle prime previsioni, circa una trentina di persone. Ma a dare le adesioni all’evento, organizzato da EGInA srl, sono diventate quasi centocinquanta. Al punto che, per l’evento, tenutosi lo scorso sabato 27 gennaio,  EGInA ha dovuto predisporre l’ampia Sala Rossa di Palazzo Trinci.

Accompagnati dai dirigenti scolastici, a partecipari in gran numero sono stati gli assistenti amministrativi delle scuole e i DSGA (Direttori dei Servizi Generali e Aministrativi), direttamente interessati dal processo di digitalizzazione, entrato ufficialmente in vigore lo scorso 2 gennaio. La loro presenza, a un evento a pagamento,  ha segnalato la volontà delle scuole del territorio nel richiedere chiarezza sulle nuove procedure, ai fini di una loro immediata applicazione.  E Schember, con la sua acuta analisi dei problemi, esposti in maniera originale e schietta, è stata la persona indicata per guidare i partecipanti nella lettura di un disegno di riforma non immediatamente intuitivo.

Classe 1957, imprenditore, docente in pensione della Federico II, da anni impegnato nella in-formazione alle scuole sulle modalità  di accesso ai fondi pubblici ed europei, Schember si è costruito nel tempo la fama di “guru” dei piani nazionali di intervento sul tema dell’istruzione.

L’argomento della digitalizzione degli appalti pubblici è d’altronde della massima complessità, e tocca in buona sostanza le nuove procedure con cui le scuole devono ottenere le forniture di beni e servizi, interfacciandosi di volta in volta con le piattaforme certificate indicate dall’ANAC (Autorità Nazionale anti-Corruzione), come Acquistinrete e MePa . I problemi  iniziano, però, con la ridondante divisione dei ruoli voluta dalla nuova legislazione, che prevede la necessità di ben sei figure che dovrebbero gestire il flusso d’acquisto dalla programmazione all’esecuzione.

“Il motivo – ha spiegato Schember nell’intervista –  è semplice: queste leggi non sono fatte per la scuola, che è una realtà finanziaria molto piccola, e con scarso rischio di corruzione: tra l’altro con un unico dirigente e pochi funzionari.  Cosa che la rende una stazione appaltante atipica, del tutto diversa da una grande azienda, o anche solo da un piccolo comune.”

Durante la conferenza-formazione, l’esperto ha proceduto a suggerire ai personali delle scuole qualche buona pratica per adeguarsi al letto di Procuste delle normative ministeriali.  Ad esempio, l’accentramento di più ruoli in un’unica persona. Una formula che ha qualcosa di teologico, ma che in realtà potrebbe aiutare dirigenti e DSGA a snellire un procedimento altrimenti contorto e macchinoso.

Altro tema caldo toccato durante la conferenza è l’implementazione dei D.M. 65 e 66 del 2023, relativi il primo al rafforzamento delle competenze STEM e al multilinguismo per gli studenti, e l’altro alla formazione del personale scolastico sul tema della transizione digitale. Due coordinate cui, piaccia o no, le scuole di ogni ordine e indirizzo dovranno adeguare la propria didattica, nella tacita speranza di formare quelle competenze così rischieste sul mercato del lavoro europeo.

Ma se la prospettiva già di per sé non soddisfa i palati degli indomiti umanisti, il modo in cui il Ministero ha gestito i fondi per l’attivazione dei nuovi percorsi formativi fa storcere il naso anche agli economisti come Schember.

Suddisive per il numero di ore necessarie, i costi del team di formatori e il numero di classi, le risorse sventagliate dai Decreti Minsiteriali assumono infatti la loro vera forma: quel “paltò di Napoleone” con cui Enzo Turco millantava di imbandire la cene per tutta la famiglia, come nel celebre film “Miseria e Nobiltà”. Anche qui, il prezioso aiuto di Schember non si è limitato all’esposizione del problema, ma ha articolato una sua possibile soluzione; che, in estrema sintesi, consiste in una selezione progressiva dei partecipanti per ottimizzare i fondi disponibili.

Al termine della discussione, durata fino alle 13.30,  ha preso piede una sessione altrettanto densa di domande e risposte. Dall’ansia di ricevere  chiarimenti da parte delle DSGA, sono emerse le due direttive dell’evento dello scorso sabato: la complessità della proposta ministeriale, spesso distratta verso il mondo dell’istruzione,  e la necessità di tradurla nel linguaggio e in base alle urgenze del sistema scolastico.

In questo senso, le scuole umbre si sono dimostrate ricettive nell’individuare la problematica e affrontarla per tempo. Un virtuosismo che Maria Cristina Rosi, organizzatrice assieme ad EGInA,  ha ricondotto alla presenza di un forte spirito di gruppo tra le istituzioni scolastiche del territorio umbro.

 “Quello che ha sempre caratterizzato l’Umbria – spiega la Rosi, che è Dirigente di un Istituto Comprensivo e di un Omnicomprensivo – è il forte spirito di squadra, la volontà di lavorare insieme quando c’è un problema. Ciò è senz’altro favorito dal fatto che l’Umbria è una piccola regione: il numero contenuto dei dirigenti e la loro motivazione favoriscono una cooperazione molto efficace.”

Non sarà un caso che, proprio a Foligno, Schember ha intrapreso la sua carriera di formatore e consulente, nel 2016; anno in cui venne invitato dalla stessa Rosi per una conferenza sui vecchi piani di interventi per l’istruzione, voluti dal Programma Operativo Nazionale (PON).

Un sodalizio che si conferma, alla luce dei nuovi interventi del Ministero, in grado troppo spesso di “trasformare un’opportunità in un problema”, come si legge in una delle slide con cui Schember, con un’ironia amara, commenta i problemi che minacciano oggigiorno la scuola, e il suo – risicato – personale.

 

Foto in evidenza dell’autore.

Città nella Città

Del “Carnevale” di Sant’Eraclio, in svolgimento questi giorni, resta in me il ricordo indelebile di quando, molti anni fa, per andare a trovare la mia fidanzata di allora nei giorni in cui si svolgevano i corsi mascherati, mi toccava affrontare ogni volta lo sbarramento stradale dove, come nel film “Non ci resta che piangere”, mi chiedevano, sul filo dell’estorsione, di pagare “un fiorino” per accedere al paese, anche se a me del loro carnevale non interessava un fico secco e ogni volta ero costretto a chiamare i Carabinieri per passare.

Ricordo le mie lagnanze al comandante dei Vigili Urbani di allora, Luigi Battisti ed al dirigente del Commissariato, Antonio Pugliese, invocando l’articolo 16 della Costituzione. Poi con la mia fidanzata di allora ci siamo lasciati, il mio problema si è risolto da solo e nel seguito mi sono volutamente disinteressato se questo regime di gabella indifferenziata perduri ancora, spero proprio di no.

Di certo il problema, semmai, sarebbe raddoppiato, perché adesso il “Carnevale dei Ragazzi” si svolge anche nella “Summer Edition” (edizione estiva, in volgare). Peccato che, se è vero che il Carnevale come tale finisce con il Mercoledì delle Ceneri (ed è capitato che si sia “sforato” oltre questa data), non esista una Quaresima estiva e meno che mai una Pasqua di Resurrezione autunnale, e questo può avvenire anche in virtù della benedizione e del plauso da parte del parroco locale che, evidentemente, ha una visione dottrinale molto modernista, nel solco “papato” attuale.

Com’è, come non è, arrivando in loco, si apprende da un tabellone gigante, ma anche da “totem” sparsi in giro per Foligno, che Sant’Eraclio è “Città del Carnevale”. “Città”, non “Frazione”. Vero è che a Sant’Eraclio esiste una “Piazza Garibaldi” con tanto di targa come a Foligno. Vero è che “dopo l’invasione francese ritornò il Governo Pontificio e Sant’Eraclio fu retto come Comune appodiato a quello di Foligno al quale presentava il bilancio annuale per l’approvazione; tutto ciò fino al 1860 quando con l’Unità d’Italia fu soppresso e passò definitivamente sotto Foligno” (fonte: “I luoghi del silenzio”). L’epoca del dominio pontificio, però, è ormai lontana e certe nostalgie risulterebbero anacronistiche.

Non risulta però che Stefano Zuccarini abbia mai posto formalmente la questione di una frazione che si proclama “Città” all’interno del Comune a cui appartiene, anzi, anch’egli benedice il “Carnevale”, come tutte le mascherate cittadine. Una frazione che, peraltro, dal punto di vista urbanistico è ormai praticamente unita al capoluogo senza soluzione di continuità. Resta quindi da chiarire un legittimo interrogativo: se Sant’Eraclio  si dichiara “Città”, chi è il suo Sindaco?

Schiava di Roma

La settimana scorsa, alla votazione in senato sull’autonomia differenziata, i padri coscritti dell’una e dell’altra riva hanno intonato insieme l’inno di Mameli. L’unica fuori dal coro, totalmente fuori dal coro, dev’essersi sentita tale senatrice leghista Bizzotto, la quale ha visto circondato ed offuscato il suo pur glorioso vessillo serenissimo dai tanti A4 convertiti in tricolore e sventolati dalla patriottissima rive gauche al grido, molto a la page, di viva l’Italia antifascista. Che forse non c’entra neanche niente, ma sul cui concetto è sempre bene ribadire la nostra assoluta condivisione.

Pare, tuttavia, che l’onda in si bemolle dell’entusiasmo bipartisan abbia fatto registrare un vuoto d’aria, essendosi i senatori leghisti slegati momentaneamente dal coro all’atto di salmodiare che schiava di Roma Iddio la creò. Che i leghisti del celodurismo abbiano in odio la cabaletta preferendo gli anapesti del Va pensiero, è noto e per quanto il segretario federale abbia ritinteggiato il secessionismo per non restare fermo a Pian del Re, pure quel senario proprio non ce la fanno a mandarlo giù, e quindi non possono neppure rimetterlo su, come soffio che sorga dal cuore. Schiava di Roma proprio no.

Ma io penso che il problema sia solo un equivoco di analisi logica: credo che il leghista intenda l’Italia schiava di Roma, ma non è così. È la vittoria ad essere schiava di Roma, è solo la dea Vittoria a dover porgere la chioma alla nuova Italia per farsela recidere, come una schiava che gira scocuzzata nell’antica Roma, dove a portare i capelli lunghi liberi e belli sono solo le signore. Insomma: Roma con le sue conquiste rese schiava la vittoria, come ora la vittoria è pronta ad essere schiava della nuova Italia, magari lanciata verso uno strepitoso futuro di autonomia differenziata (fra l’altro con i gattopardi pronti a riprendere possesso dei sacrosanti latifondi). Cose da nulla, cose da pedanti.

Fra l’altro non è la prima volta che il padano inciampa in quisquiglie filo-logiche: qualcuno, improvvido, suggerì negli anni novanta alle camicie verdi il grido liberatore una d’arme, di lingua, d’altare, di memoria, di sangue e di cor, che i solerti si stampigliarono sul braccio con buona pace del Manzoni, gran lombardo, il quale invece quei versi aveva auspicato all’Italia dal Cenisio alla balza di Scilla, in una prospettiva dunque vagamente più ampia della pur meravigliosa valle del Po. Ripeto: cose di nessuna importanza. Del resto pare che in senato, l’altra volta, accanto ai tricolori A4 (Dalla bandiera rossa al tricolore è già un bel passo avanti”, ha chiosato, con spirito schiettamente romanesco, tale senatore De Priamo, fratellino), qualcuno abbia sventolato addirittura Viva Verdi, speriamo per passione giuseppina piuttosto che per velleità monarchiche che davvero troppo ci increscerebbero!

Ma di questi tempi, con questa chiarezza e con tanta cultura di base, uno fa subito peccato senza nemmeno provare a pensar male: un azzecco ope legis più che sacrosanto. Su certe premesse non ci resta che piangere; no, suvvia, non ci resta che sperare nell’autonomia differenziata. Che almeno abbia più successo della raccolta. Ci accontenteremmo.

Contro l’Alzheimer il potere terapeutico dell’arte

il 27 gennaio CRHACK LAB ha presentato il progetto AIDA “Alzheimer patients Interaction through Digital and Arts” e di buone pratiche nazionali presso il Museo Capitolare Diocesano, unico spazio museale in Italia ad aver beneficiato dell’esperimento fra le sei realtà europee coinvolte. Obiettivo dichiarato: utilizzare la museoterapia per favorire il benessere generale dei soggetti con Alzheimer.

Giorgia Marchionni, project manager CRHACK LAB: “Il nostro focus è incentrato sulle attività negli spazi museali, prendervi parte è importante a livello sociale; i musei, come teatri e cinema, sono luoghi della società; grazie a recenti studi, oggi è finalmente chiaro che vivere luoghi culturali come spazi della società rappresenta elemento importante per vita sana e benessere psicofisico dei fruitori. Il merito del progetto, spiega, è l’aver avvicinato il mondo dell’Arte a beneficio psicofisico dei fruitori, non soltanto soggetti con patologie. Nel 2018, la museoterapia viene prescritta per la prima volta in Europa con ricetta medica: “Importante arrivare a un livello del genere anche in Italia”.

Nata per incontrare le esigenze dei soggetti con Alzheimer, negli ultimi anni AIDA interessa anche giovani e caregiver. “Esistono tante buone pratiche e sperimentazioni che viaggiano su binari separati”, continua, “AIDA nasce per unirle sotto un’unica metodologia”. Insieme ai partner europei – FONDAZIONE PATRIZIO PAOLETTI; Bulgaria Alzheimer; Spominčica; OPW; VIBORG MUSEUM; Innovation Frontiers – AIDA ha organizzato incontri locali in sei diversi spazi musali. “L’unica città a beneficiare del progetto in Italia è stata Foligno, con il Museo Capitolare Diocesano.

“Ricordo mai stimolato in maniera diretta ma affiorato dal dialogo”

“Ciascun incontro – prosegue Giorgia Marchionni – è cominciato con un momento di benvenuto, di convivialità; a seguire, ci siamo concentrati ogni giorno su di un’opera diversa, conoscendola e raccontandola sul piano emotivo per stimolare il dialogo e la socialità. Negli ultimi incontri, i partecipanti hanno beneficiato del supporto di visori virtuali, esplorando gli ambienti digitali del museo da loro stessi ideati. “La creazione di ambienti del genere permette alle signore e ai signori di rivivere l’esperienza a casa, grazie al servizio Mozilla Hubs. Abbiamo notato che, alla fine di ogni incontro, si creavano via via dei legami: e che tramite il dialogo, il ricordo riaffiorava senza mai essere stimolato direttamente”.

Giorgia Marchionni

I risultati del progetto AIDA, che ha visto coinvolte 60 persone con Alzheimer, 40 professionisti in sei paesi diversi e altrettanti incontri nei musei associati, hanno mostrato un visibile impatto positivo dell’esperienza sulle capacità verbali e di condivisione delle emozioni dei partecipanti, continuamente coinvolti in maniera attiva. “In Irlanda il successo è stato tale che il partner sta formando professionisti per implementare la metodologia AIDA in tutti i luoghi museali statali. L’obiettivo – conclude – è proseguire con attività del genere nel locale, sperando di seguire presto il modello irlandese”.

Paperon de Paperoni è passato da qui

A parte l’attuale comproprietà di Diocesi del vescovo Sorrentino che detiene la cattedra di Assisi, Foligno e Nocera Umbra, Foligno ha avuto nella sua storia a partire da San Feliciano Martire, tantissimi vescovi come racconta Lodovico Iacobilli nel suo Discorso della città di Foligno. Datato 1646 stampato da Agostino Alteri. E tra questi c’è stato un vescovo che si chiamava Paperone de’ Paperoni.
Scrive infatti lo Iacobilli: Paparone de Paparoni da Roma, creato vescovo l’An. 1264, fu dell’Ordine de’ Predicatori, li quali introdusse in Foligno, e persuase li Folignati a fabbricar le nuove mura della Città, & includer-dentro essa gli Borghi di fuori come si esseguì.
Come si può notare, dunque lo zio ricchissimo e avaro di Paperino nato dalla matita di due fumettisti della Disney, è realmente esistito. Paparone de’ Paparoni era figlio di una antichissima famiglia di Roma e nacque nella prima metà del 1200; morì a Spoleto nel 1290 dopo essere stato vescovo di Foligno e successivamente Arcivescovo del gran ducato spoletino.
Secondo una ricostruzione fatta dagli storici Paparone de’ Paparoni apparteneva ad una famiglia benestante e addirittura un suo antenato era figlio di un papa della seconda metà del X secolo.
Nel palazzo vescovile di Spoleto c’è anche un suo ritratto dipinto a tempera su un muro con sotto una scritta in latino che ne specifica la missione e che  reca anche la data del 1720, quattrocento anni dopo la sua morte.
Tornando al capolavoro della Disney è probabile, ma in questo caso non ci sono certezze concrete, che gli sceneggiatori e traduttori italiani del fumetto americano si siano imbattuti in qualche testo e possano aver avuto la genialità di attribuire al vecchio taccagno il nome di Paperone de’ Paperoni.
Del resto, il nostro vescovo, era veramente ricco di suo anche se aveva deciso di seguire la strada del convento.

Aspettando Sanremo – seconda puntata

Quando nel 2000, la nostra Luna Rossa, non la canzone napoletana scritta da Vian e De Crescenzo, ma la barca a vela che si contrapponeva a Black Magic, nelle difficili acque di Aucland, a Sanremo un’altra bellissima barca luccicava sul mare ligure insieme alla “Luna in Transito”.

Il 2000 era l’anno che avrebbe dovuto cambiare la storia, il millennio. Nel 2000 successe l’impossibile. Per la prima volta a Sanremo vinse la canzone più bella. Nel 2000 gli Avion Travel, dominarono il Festival con la canzone Sentimento.

In sala stampa sembrò scoppiare una bomba atomica. Volarono appunti e applausi. Fu bellissimo. Perchè  per la prima volta al Festival vinceva la canzone più bella, l’artista più competente, uno dei migliori gruppi della scena musicale italiana, e per di più dei cari amici. Non ebbi nemmeno il tempo di esultare che cominciai a correre giù dalle vie e per i vicoli come una furia. Correvo col fiatone per arrivare velocemente al porto. Dovevamo Trovarli. Dovevamo trovare gli Avion Travel.
Ma partiamo dall’inizio.

L’ultima sera di Sanremo ci si trascina i piedi come dopo il cammino di Santiago, stanchezza e occhiaie cominciano a farsi sentire. I tramezzini del bar dell’Ariston che costavano come il volo Los Angeles Sidney rimanevano in vetrina tristi e abbandonati come la Luisona di Stefano Benni.

L’ultima sera era come quando organizzi un dopocena in camera dopo una gita scolastica. Soprattutto dopo la gara, in quella mezz’ora che ti lascia, ci si ritrovava seduti sopra i banchi a parlare con i colleghi. Già la sala stampa del Roof sembrava un po’ come una aula universitaria con banchi e sedie tutti in fila. Per farla breve siccome stava il vantaggio una canzone orrida di cui non ricordo nemmeno l’interprete avevamo tutti ormai abbandonato l’idea che canzoni come Sentimento degli Avion Travel e Replay di Samuele Bersani avessero potuto raggiungere almeno la top ten. Sta di fatto che ce la chiacchieravamo alla grande. Io, il maestro Totò Rizzo del Giornale di Sicilia, Walter Porcedda de La nuova Sardegna, e Stefania Cubello, ufficio stampa degli Avion per la casa discografica Sugar.

Nel 2000 successe l’impossibile. Per la prima volta a Sanremo vinse la canzone più bella

In Sala stampa di solito la classifica viene data circa 10 minuti prima che arrivi in diretta proprio per permettere ai giornali, viste le ore piccole, di andare in ribattuta. Insomma, una volta era cosi, visto che il web non era al centro di tutto come oggi. Inoltre proprio per non rimanere scoperti di solito si scrivono un paio di attacchi dove si dà la notizia secca del vincitore e poi si procede con lo sviluppo della serata.

Comunque, ce la stavamo ridendo alla grande mentre si abbassa l’audio della diretta e la voce di Tonino Manzi (capo ufficio stampa Rai per il Festival, oggi in pensione) annuncia la classifica.

Si parte dal 3 classificato Gianni Morandi con “Innamorato”, seconda Classificata Irene Grandi con “La tua Ragazza Sempre”, e prima classificata… Piccola Orchestra Avion Travel.
“Come gli Avion Travel?” Seguì qualche secondo di silenzio prima dell’esplosione di gioia. La Cubello essendo ufficio stampa della band mi guardò come con sgomento e le uniche parole che riuscì a proferire fu: “Oddio, sono i miei, oddio Claudia corri, corri credo siano al porto a mangiare.

Realizzai in pochi secondi che i ragazzi dovevano salire sul palco, perché avevano vinto il Festival. Ma come anticipato prima, poiché era praticamente una vittoria impossibile, Beppe Servillo, Mario Tronco, Ferruccio Spinetti, Fausto Mesolella e Mimi Ciaramella andarono  tranquillamente a passeggio.

Mario il tastierista aveva una macchia di sugo di cozze sotto la camicia ma per fortuna era rossa amaranto e non si vedeva, mentre camminavamo verso l’Ariston mi faceva battute sulla Lazio

Cominciai a correre tagliando per qualche vicolo, sempre attraversando ali di folla. Arrivai al ristorante in piazzetta del porto, che avevo il fiatone per scorgere dal vetro la band comodamente seduta davanti ad un piatto di spaghetti alle vongole fumanti, con tanto di tovagliolo a bavaglio, ignari di che cosa stava succedendo all’Ariston. Dalla discesetta del porto arrivò anche la Cubello di corsa. Rassettammo i ragazzi, dalle foto si può notare che in qualche modo che era come se fossero stati catapultati lì. Mario il tastierista aveva una macchia  di sugo di cozze sotto la camicia ma per fortuna era rossa amaranto e non si vedeva, mentre camminavamo verso l’Ariston mi faceva battute sulla Lazio. Fausto, il compianto grande chitarrista della band mi disse: “Tienila tu” e mi regalò un plettro azzurro che aveva in tasca e che conservo gelosamente a casa, come le nostre conversazioni Facebook sulla qualità del caffè inglese contro quello napoletano, anzi casertano per essere esatti.

Alla fine gli Avion Travel salirono sul palco e tutti ci abbracciammo felici sulle note della loro meravigliosa canzone, mentre Luna Rossa faceva sognare i tifosi quasi come la luna che si rispecchiava nel mare di Sanremo. La bellezza della musica, e dell’interpretazione degli Avion Travel accompagnarono il gran finale del Festival del 2000 con quel luccichio sul mare di quella nostra barca Tesa nel vento… così come il suo nome il suo nome è sentimento.

(foto Shadowgate from Novara, ITALY, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons)

Più cianciafruscole che sirocchie

Come i norcini insaccano i salami gli influencer insaccano di cianciafruscole i loro profili social, ricevendo il prezzo del loro facchinaggio digitale, il cui mercato vale 308 milioni. La più affermata influencer d’Italia è Chiara Ferragni, citata dall’86% del campione intervistato. Al secondo posto Giallozafferano (72%) al pari di Benedetta Rossi (72%). Seguono in quarta posizione ClioMakeUp (62%) e Aurora Ramazzotti in quinta (60%). La classifica, salvo errori od omissioni, è aggiornata al 12 gennaio 2024.

Tanto di cappello, i fessi veri sono i followers assetati di panzane. Per farsi brand icon ci vogliono idee, talento, contenuti, impegno ideologico, ma soprattutto calma e continuità. Io ce la metto tutta, ma è più forte di me accettare gli scombussolamenti dei sistemi comunicativi. Trovo più rassicurante palpeggiare (se il termine non vi scandalizza) le pagine ingiallite dei libri che rinvengo in via Gentile Da Foligno a “Il Salvalibro”. È lì che ricevo asilo politico, facendo un po’ come lo struzzo inseguito dai predatori. Cerco di farmi un’opinione del mondo per capire cosa s’è verificato nel corso della storia.

Non ce l’ho con gli influencer che fanno il loro. Del resto lo fa anche Franciscus, che scrive nei social in latino, lingua tutt’altro che morta: “Tuus adventus in paginam publicam Papae Francisci breviloquentis optatissimus est” (il tuo arrivo nella pagina ufficiale di Papa Francesco che parla conciso è assai gradito). Non che Bergoglio abbia inventato niente, perché il primo ad unirsi via twitter ai fedeli digitali fu Benedetto XVI, di gran lunga il mio preferito (sia detto cum dilatato corde). Ma non ho potuto fare a meno di interpellare una tonaca che la sa lunga. Ce ne sono ancora a rovistare bene.

D: «Eccellenza, una volta i cinguettii non erano quelli di twitter, come insegnava santo Francesco aderendo ai comandamenti del nostro Creatore: “O sirocchie mie, tortole semplici, innocenti e caste, perché vi lasciate voi pigliare?». ADR: “Il Sacro, nella fluidità che gli appartiene, scorre meglio tramite la fibra che non nelle navate delle cattedrali”.

Sono arrivato ad una conclusione. Se i preti proprio non ce la fanno a dirci ogni giorno nuovo una nuova parola è comprensibile che provino perlomeno a ridire le antiche parole con nuova forza, quella della connessione.

(In copertina Innocenzo III manipolato da Luigi Frappi)

Umbria Green Festival: la sostenibile leggerezza dell’essere

Siamo esseri umani! E questo lo sappiamo bene.
Facciamo degli errori, è normale, abbiamo decretato che errare sia parte integrante della specie umana; perché gli errori, in fondo, per quanto funesti siano, a qualcosa possono servire.
Servono a capire come smettere di ripetere sempre gli stessi sbagli, evitando quindi la probabile disfunzione/devastazione che abbiamo già sperimentato. Ecco, c’è una parola che descrive molto bene il modo in cui abbiamo strutturato questa possibilità umana di migliorarsi: sostenibilità.

La sostenibilità è una condizione che implica una precisa presa di coscienza; e cioè che un sistema (o anche solo un essere vivente) può, per merito delle sue azioni, migliorare non solo le proprie condizioni di vita, ma anche quelle dei prossimi e dei posteri. Sostenibile diventa chi non ignora questa possibilità ma anzi la sposa, elevandola a testimonianza della concreta possibilità di vivere in armonia con la natura, il pianeta e gli esseri che lo abitano: proprio in virtù dell’esperienza maturata dagli errori.

Nella nostra regione c’è un gruppo di persone che ha deciso abbracciare, col nome collettivo di Umbria Green Festival, un ideale di sostenibilità che va al di là della questione ambientale; visto che, oltre a essere un’organizzazione che propone degli eventi a impatto 0, si occupa di trasmetterci una cultura sostenibile, portatrice manifesta di storie, emozioni e sensazioni tutte umane, le quali ci permettono imparare – ed educare – attraverso gli errori di personaggi storici, reali o fittizi, che incarnano, rappresentandoli, tutti gli aspetti dell’umano.

Questo meraviglioso gruppo di persone ha inaugurato la stagione 2024 al Teatro Lyrick di Assisi, con uno spettacolo sulla teoria dell’evoluzione darwiniana scritto e interpretato dall’intramontabile Isabella Rossellini, la quale mette in scena la propria storia personale intrecciandola con quella dell’evoluzione umana teorizzata da Charles Darwin; creando così un interessante parallelismo ad aprire una stagione di eventi all’insegna della crescita emotiva e culturale a portata dell’essere umano: la quale, beninteso, deve necessariamente andare di pari passo con la conservazione e la cura della natura e del pianeta che abitiamo.

(In copertina Isabella Rossellini)

Litolalìa

Un caro amico, Architetto noto in città, lo ripete spesso e convintamente: le pietre parlano. Ma poiché, beata mineralità, esse non hanno creditori da quietare né giustificazioni da fornire al proprio medico curante per le riserve di colesterolo stoccate nel sangue durante le feste, il loro esprimersi viene modulato attraverso una particolare forma di continenza verbale.
Insomma: per parlare, parlano. Ma non sempre e non di tutto. Soprattutto: non con tutti. Occorre una particolare virtù per porsi in loro ascolto.
Poiché questo del Gran Caffè Sassovivo si mostra come luogo di espressione più virtù-ale che virtuale, vi farò il favore di ritrasmettervi una storiella della tradizione folignate udita dalla viva voce di una di queste. La narratrice è una vecchia e crepata pietra del Caffè Sassovivo, liberata in occasione dell’ultima recente ristrutturazione da quel bavaglio d’intonaco ammuffito che per anni l’aveva silenziata. Una pietra derrempiticciu, da scoperchiatura, lì posta da uno scalpellino frettoloso per una riparazione che nelle intenzioni doveva essere temporanea, ma poi divenuta – come spesso accade – permanente.
Non una pietra d’angolo, per capirci. Ma è proprio da queste, dalle pietre meno nobili, che è possibile cogliere quella verace e piccante malizia, vero godimento per noi inguaribili ricercatori di ricordi sepolti. Ecco la storia.

Le pietre, per parlare, parlano. Ma non sempre e non di tutto. Soprattutto: non con tutti.Occorre una particolare virtù per porsi in loro ascolto.

L’interno del Teatro Piermarini in una foto del 1912

Il Teatro Piermarini e la Lucia di Lammermoor

Gennaio 1933. All’interno del Caffè vengono fatti accomodare alcuni distinti personaggi locali. Tra loro si riconoscono un distinto commerciante di stoffe con bottega in centro, un anziano avvocato e un giovane impiegato del Comune, fresco di nomina.
Fuori, una sferzante tramontana solleva in spirali il nevischio che con il crepuscolo è tornato a cadere.
Dentro al caffè un chiacchiericcio profondo e instancabile, impastato con nuvole di fumo e ritmato dal tintinnio dei bicchieri di vetro, trasportati in vassoi e smistati tra i tavoli con funambolico equilibrio.
I tre convenuti sono conosciuti, tra le altre cose, quali membri storici del Circolo del Teatro cittadino.
“Una grande opera lirica, Sor Vincè: tutti ne devono parlà. Per anni”.
“Propongo i grandi temi. Con i classici non si sbaglia mia. Come il Nabucco, con quella famosa compagnia lombarda”.


“Lasciate perde Sor Vincè” rincalza il pubblico posto fisso, sorbendo a piccoli sorsi il suo caffè al vapore. “L’hanno fatta a Perugia l’anno scorso. Dopo succede come tre anni fa, per l’Aida: ce dicono che semo boni solo a copià li cartelloni e ce pjano per naso.Ce vorrebbe qualcosa de novo..de mai visto”.

“Ma per carità”, quasi urla il Sor Vincenzo, scuotendo i baffoni ancora umidicci. “Se cominciamo co le novità moderne che gnisciunu capisce, sai come va a finì?”

“Come va a finire?”, chiede compito l’Avvocato, più contrariato che incuriosito.
“Va a finì che tra un pò d’anni al posto del Piermarini ce aprono ‘na gelateria”.

“Questo non succederà mai!”, risponde perentorio l’Avvocato, rispedendo al mittente le predizioni funeste di quella Cassandra.
“Allora facemo cuscì”, suggerisce il giovanotto. “Proponiamo un’opera nota, ma poco rappresentata negli ultimi tempi. La Lucia di Donizzetti”.
L’Avvocato e il Sor Vincenzo, dopo rapida occhiata, scoppiano in duplice fragorosa, asmatica risata.
“Beh? Che ve ridete?”.

“Giovane amico”, si appresta a spiegare l’ Avvocato con tono paterno. “Forse non sapete che, non molti anni fa, l’opera che suggerite fu rappresentata proprio nel nostro bel teatro”.
“E quindi? Non raggiunse il successo sperato?” chiede il giovane.
“Beh, accadde di peggio. Quando entrò in scena il tenore cantando “Dov’è Lucia”, dal loggione qualcuno con voce più stentorea della sua gridò: A COJE L’ULIA! Lo spettacolo fu interrotto e ci volle più di un’ora per riportare il dovuto silenzio in sala“.
A questo punto del racconto dirompo anche io in una scrosciante risata, scaturigine di un’ insaziabile fame d’aria che mi costringe ad uscire dal locale in ristrutturazione per riossigenarmi, lasciando la mia pietra narrante sospesa, “di sasso”.
*
Ci saranno altre occasioni per ascoltare dalle pietre di questa città le storie di quella dissacrante goliardia folignate che, complice l’assordante silenzio della solitudine digitale, nessuno sembra più voler ascoltare.
Caro Architetto Balucani, avete ragione Voi: le pietre parlano, ed oggi il Sasso è più Vivo che mai.

Lu Cuccugnau

Riapre il Gran Caffè!

È il 2021: quei carbonari impenitenti del “sarebbe stato” – dato che oggi è realtà – Gran Caffè Sassovivo mi propongono la direzione del giornale, e io firmo in bianco; un po’ perché il caffè lo adoro, un po’ perché sento di condividere coi sassi un certo quale gusto per l’ignavia. Nulla in più sapevo, al tempo, della storia del salotto cittadino par excellence, il Gran Caffè Sassovivo: quello – per intenderci – del celeberrimo birillo, che, come un minuscolo Atlante, da solo reggeva l’intera leggenda di Foligno “centro del mondo”.

Confesso che, a forza di ascoltare le storie dei giornalisti folignati della vecchia guardia, quel caffè ho cominciato a bazzicarlo pure io: origliando i pezzi dettati alle testate dalle cabine telefoniche, assaggiando vari tè al bancone; magari imparando a giocare a carambola! Pagando l’expertise con qualche colpo di tosse immaginario causato dal fumo denso che pare conferisse al Gran Caffè un’aria quasi noir.

Ebbene, in tutta sincerità, v’è un altro motivo – non meno vero della storia dei caffè e dei sassi – per il quale accettai il ruolo di buon grado: e cioè che la vecchia guardia di cui sopra si era messa in testa di riaprire il Gran Caffè Sassovivo tramutandolo in giornale! Un figliolo dalla lunga gestazione, lo concediamo; nondimeno, eccoci qui, nel momento di massima debacle della carta stampata, con intere redazioni decimate dalla povertà dilagante (economica e contenutistica), a proporvi un portale online che restituisca a Foligno un luogo di dibattito, confronto, riflessione, impegno civico.

Non basta: una palestra sociale, un osservatorio del futuro politico. Diciamo meglio: un pezzo di DNA folignate riconsegnato alla città, il quale ha tutta l’intenzione di diventarne l’agorà virtuale.

E acciocché non pensiate che la redazione sia calcata da soli preziosi dinosauri – quasi fosse un parco giurassico invece che una testata giornalistica -, vi do la mia parola d’onore (cliccare per credere) che di giovani penne ne troverete a iosa. Sposando in pieno le parole di Sir Alex Ferguson,

“la mia missione è costruire una squadra che sia in grado di mantenere la capacità di competere nei prossimi dieci anni, non solo le prossime dieci partite”.

Fugato ogni lecito dubbio, passiamo al merito della questione: quanto zucchero nella tazzina?

(In copertina sezione quadro di Luigi Frappi)

Il Gran Caffè Sassovivo

Il Gran Caffè Sassovivo, col suo ampio salone centrale, la sala da tè in stile barocco, e le due vaste sale da biliardo e da gioco, inaugurato il 4 giugno 1930, per oltre cinquant’anni si è connotato come il salotto buono – quasi di élite – dei folignati. Poi, negli anni, ha perso quel “tocco aristocratico” per diventare un punto di aggregazione e socializzazione, dove le genti di Foligno si incontravano, in un contesto conviviale, per dibattere di questioni sociali e politiche, e persino per concludere affari; un luogo speciale che ha fatto parte, per decenni, del tessuto storico locale. E in quei locali, dove c’era persino una parete zeppa di cabine telefoniche, nacquero i primi germogli del giornalismo folignate, che in seguito sarebbe diventato tanto importante per la storia dell’Umbria.

Foligno viene considerata (con una definizione amplificata da Eugenio Scalfari su “Repubblica”) il “centro del mondo” per la sua posizione geografica; tale punto è sempre stato identificato dai Folignati proprio con il birillo centrale del biliardo del “Caffè Sassovivo”. Chiuso – nell’indifferenza generale – per dar luogo prima a un moderno ristoro, poi ad un istituto di credito, attualmente l’involucro del fu GCS ospita un’attività commerciale.
Tale scelta ha stravolto anche l’identità storico culturale della città, perché si è perso un “luogo” che si identificava con il territorio: è stato smarrito qualcosa della nostra storia e della nostra tradizione.

Foligno deve ritrovare identità, dignità e orgoglio, rivendicare i propri valori, la propria cultura e le proprie tradizioni, riacquistando così la centralità che le compete, anche in ambito regionale.
Il settimanale Gran Caffè Sassovivo è stato pensato, nel 2015, per far veicolare informazioni ed idee, per ridare ai folignati un luogo di incontro, seppur virtuale, per incrementare il dialogo e l’effettiva partecipazione comune: una moderna agorà, nella quale passioni e slanci si sarebbero potuti coniugare con il dibattito sulle problematiche e le possibili soluzioni, in un’interazione continua; della quale l’informazione autentica e libera – capace di rappresentare lo spirito della città – sarebbe stata la cifra distintiva.

Oggi, finalmente, il sogno può diventare realtà: quello che costruiremo, redazione e lettori insieme, sarà un percorso per dare voce a chi non ha voce, per alimentare la cultura dell’incontro e del confronto; per dare spazio, all’interno di ogni tematica, a una pluralità di idee e opinioni diverse, privilegiando sempre la realtà cittadina e gli interessi di Foligno.

L’editore.

I Supermercati della Sanità: Attentato al diritto alla salute

“Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevate al cielo…”
Addio!

Nasce nel 1978, con una tenace battaglia di Tina Anselmi, il Sistema Sanitario Nazionale. Tutto è inizialo dall’art 32 della Costituzione (1948), il diritto alla salute non è più un privilegio, ma un diritto. Si raggiunge una delle massime conquiste sociali e democratiche, superando la diversità imposta dalle mutue. I principi ispiratori furono quelli della universalità, delle equità e della uguaglianza. Il SSN subisce due grandi riforme quella del 1992 e quella del 1999. Il SS da Nazionale diventa Regionale, la sanità viene aziendalizzata: l’organizzazione manageriale, il concetto di governance commerciale diventano dei miti inconfutabili. La sanità viene affidata da politici a direttori generali, spesso medici, incapaci di gestire il mostro creato.

Iniziano i tagli lineari propagandando la lotta allo spreco ma che nascondono la incapacità a governare la salute a fronte di una gestione spicciola, commerciale, della resa dei conti. Vengono ridotti i posti letto ospedalieri a differenza di Francia e Germania, riconvertiti (chiusi) interi ospedali: l’Italia ha uno dei numeri più bassi (3,16/1000 abitanti ed è al 23° posto davanti a Irlanda, Spagna, regno Unito, Danimarca e Svezia). Si risparmia su tutto senza percepire o, meglio, senza voler percepire che la richiesta di salute deve essere gestita dalla medicina sul territorio prima di tutto.

I Medici di Medicina Generale vengono affossati in un contesto ragionieristico, devono rendicontare le spese a fronte di un’impossibilità ad occuparsi della salute della persona che hanno di fronte. “La linearità fideistica rende l’assistenza territoriale di base standardizzata, anonima ed il medico di medicina generale schiavo inumano tecnologico” (Sennet R, 2009).
Le recenti normative (es. DM 77) non hanno portato innovazione ma solo profezie fallimentari (le case della salute, gli ospedali di comunità, tutt’altro che di comunità, i centri di assistenza e urgenza). La depersonalizzazione della sanità, i bassi stipendi e le difficoltà hanno causato la fuga del personale medico verso altri lidi e verso una sanità privata, risorsa sì, ma che dovrebbe essere complementare a quella pubblica e non in sostituzione. Il proliferare dei supermercati della sanità ha provocato e provocherà sempre più richiesta di prestazioni, perché l’offerta determina la domanda, con il corollario finale che il povero – sempre più povero – aspetta per il suo diritto alla salute.

Foligno ha pagato le conseguenze delle riforme: il terzo polo è una invenzione per accontentare un territorio sempre più impoverito: non abbiamo ben chiaro se avremo una casa della salute e se l’ospedale di comunità si farà a Montefalco. Ma con quali risorse? Chi lo gestirà? Forse il medico di medicina generale? Abbiamo personale a sufficienza per garantire una assistenza adeguata? Sempre a Foligno stanno sparendo primariati con un declassamento dell’Ospedale: ma a favore di chi? E Foligno, con la sua amministrazione passiva, sta a guardare, come Lucia guardava il suo paesaggio.

Le visite specialistiche e le sale di attesa: “Perché non siam popolo, perché siam divisi”

La richiesta di visite specialistiche aumenta vertiginosamente: non più medicina basata sulla appropriatezza in riferimento alla patologia specifica, ma idolatrata in un concetto di efficienza /efficacia solamente economicistica. Inoltre, ad aumentare la spesa sanitaria, c’è l’aggressione mediatica alla responsabilità del medico, e quindi il ricorso alla medicina difensiva che costa risorse e soldi.

Il problema annoso delle liste di attesa attanaglia la politica cercando soluzioni impossibili: una costruzione irrisolta di inefficienza gestionale. Il blocco del turn-over dei medici ha portato al sovraccarico prestazionale e quindi all’incapacità di incrementare le attività. I centri di prenotazione unici sono diventati un centro di smistamento senza la percezione che chi richiede può essere il fragile di turno, che viene così mandato a chilometri per un diritto. E si parlava di medicina di prossimità, di medicina vicino al paziente, definito per ignoranza semantica utente. Utente di che cosa? Del servizio elettrico?

E questa è l’Italia del Servizio sanitario regionalizzato, non più equa, non più universale, non più uguale, non più solidale. È l’Italia della autonomia regionale differenziata (voluta istericamente da una parte politica nata per disgregare, dividere e tornare all’Italia dei granducati; quella parte politica che si è diffusa come metastasi in tutte le regioni: a fronte di una politica auto-definitasi di “difesa del popolo“, che per il popolo non ha più fatto nulla) che creerà sempre più differenze sociali. È l’Italia che non ha voluto la riforma del titolo V della costituzione. E per chiudere, come ho iniziato, Mameli è morto per l’Unità d’Italia a 22 anni affinché il popolo senza identità e diviso fosse raccolto sotto un’unica bandiera, “una speme”.

Speranza che la sanità possa avere come obiettivo la salute della persona globalmente intesa. Un popolo in salute è la salute del Paese.

(Pezzo a firma di Stefano Stefanucci)

Tutto pronto per AIDA: la sfida dell’Umanesimo 2.0

Osservare a lungo un quadro per scomporne le immagini, distinguere le sfumature del colore; scandagliarlo con lo sguardo fino al punto di cogliere l’istante cromatico in cui lo sfondo diventa forma, in cui il dettaglio diventa una persona. L’arte fa bene, perché stimola i sensi mentre al tempo stesso ci costringe a interrogare il rapporto con la realtà; è un “lavoro” che, tra i pochi, appaga la mente. Forse è per questo che, senza possederne la legge scientifica, la ricerca psicologica ha osservato che l’uso dell’arte a fini terapeutici (art therapy) ha degli effetti benefici sul cervello, fino al punto di favorire il trattamento delle malattie neurodegenerative.

Sulla traccia di questa ipotesi così profondamente umanistica, muovono i loro passi dei progetti che puntano a coinvolgere la cittadinanza in dei laboratori di sperimentazione, dove si valorizzano le ricchezze del territorio mentre si portano avanti importanti campagne sociali.  Uno di questi è AIDA; ed è, in parte, lo sforzo di giovani concittadini sul tema del welfare culture.

AIDA è infatti l’acronimo di Alzheimer patients Interactions through Digital and Arts, e non è solo un evento. È piuttosto una metodologia, che gioca sul dialogo innovativo tra il settore dell’arte, il digitale e il sociosanitario. Tre “sfere di competenza” che, come si legge nel sito web del progetto, promuovono già delle attività a favore dei malati di Alzheimer e dei loro caregiver, viaggiando però su binari paralleli senza trovare possibilità di confronto e contaminazione. L’efficacia metodologica di AIDA riposa, invece, sul dialogo tra saperi; l’idea è che, nell’assenza di prospettive a breve termine per una cura delle demenze degenerative, siano necessari trattamenti che migliorino i sintomi neuropsichiatrici e la qualità della vita.

Co-finanziato dai fondi dell’Unione Europea, AIDA fa dialogare tra loro esperti provenienti da diverse nazionalità. Grazie alla coordinazione della Fondazione Patrizio Paoletti per la ricerca sulle neuroscienze, AIDA raccoglie le voci di due associazioni per la promozione culturale.  La Office of Public Works irlandese, il museo danese di Viborg, due associazioni no-profit bulgare e slovene dedite alla lotta contro l’Alzheimer, e due agenzie di sviluppo tecnologico. Tra queste, Chrack Lab Foligno 4D, un’organizzazione di volontariato con sede a Foligno, impegnata da tempo per la promozione di politiche dell’inclusività attraverso le strumentazioni digitali. Come luogo di sperimentazione del metodo AIDA, Chrack Lab ha individuato il Museo Diocesano, col quale intrattiene già una lunga tradizione di progettazione condivisa.

“È il luogo ideale – spiega Giorgia Marchionni, project manager per Chrack Lab – perché è ampio, non presenta barriere architettoniche e permette di dare ai pazienti con disabilità il giusto spazio per apprezzare le opere d’arte”.

Come accennato, non è il primo progetto sul tema sviluppato dalla collaborazione tra Chrack Lab e il  Diocesano. Nel 2022 è finito un progetto, chiamato “Arte mia. L’arte per l’inclusione e l’accessibilità”, con la collaborazione della cooperativa sociale La Locomotiva, grazie al quale l’organizzazione ha ottenuto, per il 2024, un finanziamento per l’implementazione di guide accessibili presso altri due poli museali: il CIAC e il Museo della Santissima Annunziata, dov’è custodita la Calamita Cosmica.

Gli sforzi e i risultati del progetto saranno presentati sabato 27 gennaio, presso la sede del Museo Capitolare Diocesano. La giornata, divisa in due tempi, vedrà la presenza di diverse figure che hanno preso parte ad AIDA: lo staff di Chrack Lab sarà accompagnato dalla psicoterapeuta Valentina Rossi, da Gregorio Battistoni della cooperativa Altante e, in collegamento online, dal Dipartimento Educazione della Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze. Sarà inoltre presente Lucia Guarino, insegnante di Dance for Parkinson, e la storica dell’arte Marta Onali. Invece nel pomeriggio, a partire dalle ore 14.30, le porte del museo saranno aperte a tutta la cittadinanza, che potrà intervenire in prima persona a un focus group per condividere opinioni sull’uso degli spazi museali per il cittadino.

La speranza – che certo non si esaurisce con la fine del progetto – è quella di implementare pratiche in grado di favorire il benessere e innalzare la qualità di vita di una fetta della popolazione che, a causa di una condizione molto diffusa (ne soffre quasi il 5% della popolazione europea over-65) si rinchiude nella solitudine e nell’isolamento, e avrebbe invece bisogno di compagnia di umanità e politiche dell’umanesimo. Quelle, cioè , in grado di riconoscere e recuperare la centralità dell’essere umano.

 

(foto di copertina tratta da AIDA, link: https://artzheimer.eu/index-ita.html).

“Variante Sud opera inadeguata” e la Consulta si autosospende

Dopo le osservazioni critiche sulla Variante Sud la Consulta per la Mobilità del Comune di Foligno si autosospende. Novelli e Bartoli: “inutile lavorare, non siamo ascoltati da questa Amministrazione”

“La Consulta chiaramente va in sospensione: è inutile continuare a lavorare con un’Amministrazione comunale che non tiene conto delle nostre osservazioni. Non può essere annullata perché è regolata da uno Statuto comunale ed è un vero e proprio organo amministrativo. Non escludiamo possa tornare attiva, magari se la prossima Amministrazione vorrà e potrà riabilitarla. Da questa non abbiamo segnali, non c’è interesse a recepire il nostro lavoro dunque è inutile tenerla attiva”: così Marco Novelli, membro della Consulta per la mobilità sostenibile, per l’Ambiente e la sicurezza stradale della città di Foligno e presidente Legambiente Foligno e Valli del Topino.
L’organismo consultivo del Comune aveva recentemente redatto una relazione assai critica sul progetto della Variante intermedia sud, definendola “un’opera sproporzionata” e suggerendo alternative più sostenibili.
A fine dicembre la presentazione della relazione – nella totale assenza di rappresentanti dell’esecutivo folignate –  e a seguire una conferenza stampa di bilancio di due anni di attività, che lasciava trapelare la delusione dei membri della Consulta per l’ “abbandono” da parte del Comune. 

SULLA SCUOLA SANTA CATERINA NESSUNA RISPOSTA ALLE OSSERVAZIONI

Oggi Francesco Bartoli, segretario della Consulta e rappresentante dell’associazione Cetri-Tires ribadisce la scelta spiegata da Novelli: “Non ha senso riunirci se quanto affermiamo non viene preso in considerazione; ci è stata negata la possibilità di avere una pagina Facebook per rendere noti i nostri lavori e anche i verbali dei nostri incontri non sono mai stati recepiti o pubblicati; non abbiamo nessun canale di comunicazione esterno”. Anche sul progetto della nuova scuola Santa Caterina la Consulta aveva illustrato criticità e proposte alternative per eliminare il traffico e incentivare l’ingresso a scuola a piedi o in bici “ma nessuno ha preso visione e risposto alle osservazioni , nonostante l’articolo 13 del regolamento comunale degli Istituti di partecipazione imponga una risposta entro 60 giorni. A noi non è mai arrivata”.

Non c’è interesse a recepire il nostro lavoro dunque è inutile tenere attiva la Consulta

VARIANTE SUD, PROGETTO “NON ADEGUATO”

“Pur chiedendo una razionalizzazione dei flussi del traffico cittadino, riteniamo la categoria della strada da realizzare non adeguata alle vere esigenze della nostra città”: si era concluso con una pesante bocciatura il documento prodotto a fine anno circa il progetto Variante Intermedia Sud (allaccio S.S. 77 S.S.3 a Foligno e collegamento con la SR 316) che sarà una ‘Strada di categoria C destinata al traffico pesante a scorrimento veloce’ (percorribile fino a 90 km/h).
Le quattro pagine redatte dalla Consulta comunale che all’ultima riunione di dicembre scorso, si è radunata ‘orfana’ di rappresentanti dell’Amministrazione folignate, erano iniziate con una premessa: ogni scelta urbanistica deve essere valutata attentamente per le sue implicazioni ambientali e sociali. La costruzione di una nuova strada, scrivono i consultori, potrebbe comportare la perdita di suolo prezioso e contribuire ad emissioni inquinanti. Al contrario, secondo la Consulta, investire in soluzioni di trasporto pubblico efficienti, promuovere infrastrutture ciclopedonali e ottimizzare le attuali infrastrutture potrebbe rappresentare un’alternativa più sostenibile, considerando la necessità di preservare gli ecosistemi, promuovere la salute pubblica e migliorare la qualità della vita. Dunque una premessa ad esplorare e adottare alternative che favoriscano un futuro ecologicamente sano e socialmente equo.

Nella tavola il progetto del ponte sul Topino

I PUNTI CRITICI EVIDENZIATI 

Strada fuori dal Prg
La realizzazione di una strada di categoria C destinata al traffico pesante a scorrimento veloce, con caratteristiche diverse da quelle previste dal Piano Regolatore ancora in vigore, costituisce una critica significativa. Quest’opera devierà il traffico pesante intorno all’ospedale, ma la sua configurazione, delimitata da guard rail e con restrizioni veicolari specifiche, solleva preoccupazioni sulla sua adattabilità alle esigenze locali.
Divisione e isolamento delle frazioni
La progettazione attuale prevede che la nuova strada, attraverso le sue limitazioni e le complanari dedicate, divida e isoli tutte le frazioni a sud di Foligno. Tale disposizione potrebbe generare disagi nella circolazione locale, in particolare considerando fasce di rispetto e distanze fra le rotatorie incongruenti alla norma della categoria. Questo potrebbe avere impatti negativi sulla coesione sociale e sulla connettività delle comunità locali.
Impatto ambientale ed economico
L’opera proposta, con un costo significativo di 62 milioni, solleva dubbi sul suo impatto ambientale, sulla sostenibilità e sull’agricoltura locale. La nostra preoccupazione principale è che questa infrastruttura altererebbe l’armonia paesaggistica di tutte le frazioni a sud di Foligno. Inoltre, si teme che l’impatto economico e ambientale potrebbe risultare dannoso nel lungo termine, richiedendo una riflessione approfondita sulle alternative più sostenibili e integrate nel contesto locale.
Preoccupazione per ciclabile e percorsi pedonali
La ciclabile recentemente inaugurata, insieme alle ciclopedonali “la Tronca” e “Casone”, rischia di subire modifiche o soppressioni a causa delle nuove infrastrutture. La necessità di sovrappassi o sottopassi per attraversare la variante solleva preoccupazioni sulla continuità e l’accessibilità delle reti ciclabili e pedonali, compromettendo la connettività urbana e la sicurezza dei percorsi.
Rischio congestione alla rotatoria di via Fiamenga
La rotatoria del McDonald’s, già oggi congestionata in diverse ore del giorno, affronterà un ulteriore aumento di traffico con l’integrazione della variante. Questo potrebbe portare a una congestione ancora maggiore, con possibili impatti negativi sulla fluidità del traffico locale e sulla qualità della vita dei residenti nelle vicinanze.
Impatto sulla viabilità verso l’ospedale
La rimozione della rotatoria prima dell’ospedale e l’obbligo di seguire la rotatoria di Fuksas secondo la Consulta comporteranno percorsi più lunghi per raggiungere l’entrata principale dell’ospedale. Con un impatto negativo sulla comodità di accesso, in particolare per coloro che utilizzano via Mons. Luigi Novarese, causando disagi per i residenti.
Problemi di accesso e svincolo nelle frazioni
Le frazioni di Santo Pietro, Maceratola e Cave dovranno affrontare sfide nell’accesso in bicicletta o a piedi in città, mentre i ciclomotori dovranno compiere percorsi più lunghi. Inoltre, la proiezione in alto della ciclopedonale “la Tronca” con rampe di oltre cento metri aggiunge complessità e potenziali inconvenienti al collegamento tra le zone.
A Cave ponte sul Topino con una campata di oltre 200 metri
Nella frazione di Cave sorgerà il nuovo ponte sul Topino che con una campata di oltre duecento metri supererà il fiume e le strade. Per potervi accedere – segnala la Consulta – si dovrà passare per la viabilità esistente o a Maceratola o  Corvia, attraversando Ponte San Magno e costringendolo a rimanere carrabile
Impatto su agricoltura e ambiente
Nella zona dello svincolo, l’impatto sull’agricoltura e sull’ambiente è evidente. Il tracciato taglierà diagonalmente terreni agricoli, costringendo i coltivatori a percorrere la viabilità ordinaria tra le case, creando disagi e pericoli. Questo potrebbe compromettere il carattere agricolo di pregio della zona.
Ostacoli nell’accesso alla variante e alla ciclovia
In alcune zone, come Corvia, alcune case avranno accessi diretti compromessi, mentre altre dovranno fare percorsi aggiuntivi sulla viabilità ordinaria per raggiungere le complanari di accesso alla variante. Ciò solleva interrogativi su come verranno raccordate le ciclopedonali esistenti, aumentando la complessità del sistema viario locale.
A Casone un ponte alto sei metri e nessun accesso al biodigestore
Arrivati alla zona di Casone il collegamento ciclopedonale tra il centro di Foligno e la ciclovia Assisi – Spoleto verrà anch’esso proiettato in alto a 9 metri come già per la Tronca; nella medesima zona si pone la questione dell’accesso al Biodigestore che non è stato previsto pur essendo oggetto di grande traffico pesante
Impatto su aree industriali e aziende
Nella zona Enel, la strada taglierà terreni industriali di valore e creerà una nuova rotatoria vicino alla superstrada, rendendo difficoltoso l’accesso delle aziende della zona. Questo potrebbe avere effetti negativi sull’attività industriale e sulla viabilità locale.
Congestione sullo svincolo con la Flaminia
L’area dello svincolo con la Flaminia, già congestionata per la presenza di centri commerciali, dovrà gestire ulteriore traffico pesante in uscita. Questo aumenterà il caos nella zona, con potenziali impatti negativi sulla sicurezza stradale e la vivibilità della zona circostante.

La lisca per storto

Non mi piacciono le bandierine palestinesi che occhieggiano da qualche vicolo cittadino. È chiaro che ognuno espone la bandierina che gli pare, ma a me i vessilli palestinesi, nella città in cui abito, non sono piaciuti. E non mi sono piaciuti non perché siano bandiere della Palestina, ma perché non vi sono accanto quelle di Israele. Non mi piacque nemmeno la manifestazione pro-palestine che sostò in piazza San Domenico. Se abito in questa città, se ne sono cittadino, allora ho il diritto di prendere le distanze da manifestazioni con le quali non mi riconosco; se ci fossero state anche le bandiere di Israele, volentieri mi sarei fermato e avrei scambiato due chiacchiere. Così no; marcino e ostendano, perché è loro diritto farlo, come io ho il diritto di non marciare con loro sotto la loro ostensione. E’ una questione di razionalità e quindi investe ciò che è razionale; vuol dire che le religioni non c’entrano.

Che io non mi sia mai preso con l’islam, non c’entra niente stavolta. L’ho scritto e ripetuto: non mi sottometto a nessuno, figuriamoci a una religione. Il discorso è un altro e, per me, è un discorso d’ignoranza: partire cioè dal presupposto che la ragione sia sempre da una parte e che Israele abbia torto a prescindere. E’ una tentazione snella, quasi inevitabile.

Ci cascò perfino Craxi quando nell’ottantacinque, riferendo su Sigonella, avvicinò Arafat a Mazzini, “un uomo così nobile, così religioso, così idealista” (Mazzini, non l’altro), che pure, volendo fare l’Italia, “concepiva e disegnava e progettava gli assassinii politici”. Ecco: non mi soffermo se abbia ragione Hamas oppure l’autorità palestinese e torto Israele, o viceversa. La questione è talmente intricata che ci vogliono ben altre penne per provare a chiarirla. E del resto è difficile che si giunga ad un punto di vista condiviso, perché qui la verità è colei che la si crede o, se si preferisce un’ottica relativistica, dipende dal soggetto, che è perturbatore anche se non vuole.

Non stiamo su questo argomento; qui a volare, come al solito, sono gli stracci, mentre le autorità dell’una e dell’altra parte, divise e indebolite al loro interno come poche volte prima, hanno ricevuto una boccata d’ossigeno immondo dall’eccidio del 7 ottobre. A me non piace il palestinismo di quelli che negano ad Israele di avere un proprio Stato, di quelli che gli rifiutano il diritto di difendersi e quello di esistere, che inneggiano all’intifada ma scuotendosi a distanza di sicurezza. E mi piace ancora meno chi, da ipocrita, parla di memoria, di olocausto, di shoah e però, sotto-sotto, questi ebrei che allargano i gomiti, che prendono, che usurpano, che si spandono superbi di vittoria perché amici degli americani: intollerabili!

Non ho sentito una femminista, di quelle toste, dire una parola per le ragazze ebree del Nova Music Festival rapite, oltraggiate, violentate ed usate come tirassegno a gambe divaricate. E questo a me proprio non va giù. Per questo bandierine e vessilli palestinesi non mi rappresentano. Qualche anno fa andava di moda not in my name, che non vuol dire niente ma si adatta alle stagioni con sorprendente disinvoltura.

Ecco: se passate da queste parti e vedete tracce di orgoglio palestinese (a distanza), quelle non sono a mio nome, ne prendo assoluta e debitissima distanza. A meno che non ci sia la bandiera di Israele a riconoscerne la reciprocità dei diritti, perché gli sbagli d’Israele li vedono tutti con sorprendente e repentina chiarezza, i suoi diritti invece restano per storto come una lisca ed i rigurgiti che si annuvolano per schiaviccar quella lisca sanno dell’acido di un odio antico. E io complice di quell’odio non sarò mai.

(Immagine in copertina di Carlo Rampioni)

Ciclisti non ciclabili

Tempi duri per i ciclisti: nonostante le tante chiacchiere sul “green” o sulla mobilità “sostenibile”, alla fine chi pedala conta sempre di meno. Lo dimostrano anche provvedimenti recenti.

Il primo, quello del trasporto delle biciclette sulle automobili, praticato da chi (come me) si reca nel luogo prescelto di volta in volta, lontano da casa, per effettuare una escursione. Fino a ieri nessun problema particolare ad utilizzare dei porta-bici da portellone posteriore (come me) o da gancio di traino, salvo adottare opportuni accorgimenti, come non coprire la targa e le luci posteriori ed usare la segnalazione di carichi sporgenti con quello da portellone, o dotarsi di una targa di replica da collocare su quello da gancio di traino, già dotato di luci come tale.

A complicare le cose arriva una circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che, per quello da gancio di traino, obbliga il passaggio in Motorizzazione Civile per l’omologazione del porta-bici utilizzato, da sottoporre a collaudo e annotare nella carta di circolazione. Ma questo sarebbe poco.

Stanti le nuove norme, nell’uno e nell’altro caso, porta-bici da portellone posteriore o da gancio di traino, la bicicletta trasportata non può più eccedere in larghezza la sagoma dichiarata del veicolo, esclusi specchietti retrovisori. Per chi ha un veicolo di larghezza inferiore alla lunghezza della bicicletta, che nel caso di una e‑bike può arrivare a quasi due metri (la mia è 195 centimetri per 169 centimetri di larghezza nominale della vettura), l’unica possibilità è quella di dotarsi di un’automobile adatta; peccato che quelle di maggiore larghezza non siano certo tra le più economiche. Come fare? Ho chiesto tramite PEC al Ministero di sapere come risolvere il problema delle dimensioni senza cambiare auto: aspetto risposta.

Pesanti multe per i trasgressori ma non per tutti. Ciliegina sulla torta, infatti, i conducenti stranieri che circolano in italia, soggetti a casa loro a normative meno restrittive, non sono passibili di sanzioni in caso di irregolarità.  Com’era lo slogan del Ministro? “Prima gli italiani”. Infatti.

Dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti alla Regione Umbria. Qui uno sciagurato emendamento alla Legge Regionale 28/2001, “Testo unico regionale per le foreste”, proposto dalla consigliera leghista Manuela Puletti ed approvato dalla maggioranza, ha di fatto comportato la decadenza del divieto di cui alla precedente formulazione dell’articolo 7, comma 3 sub b) e c) ove era stabilito che “la circolazione e la sosta dei veicoli a motore (…) è vietata (…) sui sentieri, sulle mulattiere, (…) nei prati, nei pascoli, nei boschi”, subordinando ora il divieto di transito dei mezzi a motore alla collocazione di apposite tabelle che ovviamente è tutta da attuare, con gravi oneri per gli enti territorialmente preposti; tabelle che, per esperienza riguardo alla segnaletica già esistente per le sole “strade”, sarebbero comunque votate a vita breve dagli atti di vandalismo.

Oltre alle associazioni ambientalista, hanno manifestato le loro riserve riguardo al nuovo regime normativo anche 23 sindaci dell’Umbria, ma solo per chiedere tempo di allestire la necessaria tabellazione. Tra questi non compare il sindaco di Foligno, Stefano Zuccarini.

Stante il nuovo regime di circolazione che ne scaturisce, sui sentieri, sulle mulattiere, nei prati, nei pascoli e nei boschi, l’incrocio o superamento tra escursionisti in bicicletta (o a piedi) e mezzi a motore diventa una eventualità reale, e come tale problematica, quando non addirittura a rischio.

In primis perché, al di fuori delle “strade” considerate come tali, non si applica il Codice della Strada, e quindi non esistono regole di condotta e di sicurezza da rispettare da ambo le parti. Secondo, perché, per i veicoli a motore, la copertura assicurativa RC obbligatoria, di norma, non si applica al di fuori delle strade considerate come tali. Di conseguenza, in caso di un sinistro, sui sentieri, sulle mulattiere, nei prati, nei pascoli o nei boschi, tra un mezzo a motore e un escursionista in bicicletta (o a piedi), c’è la seria possibilità che a quest’ultimo non sia garantito il risarcimento dei danni. Analogamente, ho chiesto tramite PEC alla Regione Umbria di avere chiarimenti: aspetto risposta.

Nel frattempo, ciclisti italiani ed escursionisti dell’Umbria, arrangiatevi.

Nel nome del Rispetto

L’evento nasce nel ricordo di Willy Monteiro, ucciso dal ‘branco’ nel tentativo di difendere un amico in difficoltà: toccante messaggio della mamma Lucia. Intanto entra nel vivo il protocollo siglato dall’associazione ‘Nel nome del Rispetto’ col Ministero della Giustizia, in cantiere iniziative educative e culturali nelle carceri minorili di tutta Italia

Cristina Virili (a sinistra) e Cristina Zenobi

ASSISI – Secondo il dizionario è un “sentimento che porta a riconoscere i diritti, il decoro, la dignità e la personalità stessa di qualcuno, e quindi ad astenersi da ogni manifestazione che possa offenderli”. Ma Cristina Zenobi, la presidente dell’associazione “Nel nome del Rispetto”, perché è di rispetto che si parla, non ama definirlo un sentimento, ma piuttosto un diritto e un dovere, la cui violazione scatena quelle inciviltà e nefandezze che riempiono le cronache. Ecco, dal “centro del mondo”, da anni ormai, è partita una sfida per recuperare e coltivare il senso del rispetto, soprattutto tra i giovani. Tutti i giovani, anche quelli che hanno già violato la legge. Non a caso l’associazione ”Nel nome del Rispetto”, che dopo i primi passi mossi a Foligno e nel resto dell’Umbria è ora una realtà nazionale, ha recentemente siglato un protocollo d’intesa con il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, (un altro è in via di definizione con il Ministero dell’Istruzione) per iniziative da realizzare in tutte le carceri minorili italiane; un grande traguardo, che apre un orizzonte di speranza in un mondo che troppo spesso coniuga giovani e violenza.

Proprio il 20 gennaio scorso si è celebrata in Italia la prima “Giornata del Rispetto”, istituita su proposta dell’associazione umbra, autentico motore di un progetto che schiera già decine di “ambasciatori” in tanti comuni italiani e contempla oltre diecimila studenti coinvolti in un concorso a tema riservato alle scuole di ogni ordine e grado. La prima Giornata nazionale del Rispetto, dedicata al ricordo di Willy Monteiro Duarte, il giovane cuoco di origini capoverdiane ucciso a Colleferro di Roma nel 2020 dalla furia omicida del “branco”, mentre tentava di difendere un amico in difficoltà, è stata l’occasione per una presentazione ufficiale che si è svolta all’Auditorium “Padre Nicolini Evangelista” di Assisi. Il 20 gennaio Willy avrebbe compiuto 25 anni, se non fosse stato brutalmente ucciso. E proprio ad Assisi la mamma di Willy, Lucia Monteiro Duarte, ha rotto il silenzio seguito allo strazio, affidando le sue riflessioni ad un intenso e commovente video:

“Nel mio cuore non c’è odio per le persone che hanno ucciso mio figlio – ha detto tra l’altro – perché l’odio e la ricerca della vendetta impediscono di vedere bene la realtà e non aiutano a costruire la pace, a diffondere il senso del rispetto e soprattutto creano una catena infinita di male. Ai ragazzi voglio dire di non scoraggiarsi anche di fronte alle avversità, perché sono capaci di fare cose meravigliose. Il rispetto – ha aggiunto – è mettersi nei panni dell’altro, capendo che ha i nostri stessi sentimenti”.

Ma sono state tante le voci (compresi i video degli studenti arrivati da tutta Italia) che ad Assisi hanno voluto celebrare la prima Giornata Nazionale del Rispetto, davanti ad una folta platea fatta anche di studenti delle Primarie di Assisi. Dai liceali del “Classico” di Barletta è arrivato un doppio video-regalo: l’inno di Mameli suonato dall’orchestra della scuola e il neonato inno ufficiale della Giornata del Rispetto, composto ed eseguito sempre dai ragazzi. “Sono davvero emozionata e commossa per questo traguardo che ci è costato molto lavoro ma che ci sta regalando tante soddisfazioni” ha detto la dottoressa Zenobi, affiancata dalla vicepresidente dell’associazione, la professoressa Cristina Virili, in apertura dell’incontro (coordinato dal caporedattore Rai Luca Ginetto).

A seguire gli interventi dei tanti sostenitori del progetto, quelli del mondo scolastico e istituzionale ma anche quelli legati ad altri ambiti, come la direttrice del supercarcere di Spoleto Bernardina di Mario, già alla guida del Carcere di Capanne, il presidente della Fondazione umbra contro l’usura Fausto Cardella, Francesca Gosti, curatrice del progetto di “scrittura creativa” nelle carceri di Perugia e Spoleto, il regista Gianfranco Albano, il direttore dell’Ufficio comunicazione del Sacro Convento di Assisi padre Giulio Cesareo, il presidente del Coni regionale Domenico Ignozza, il presidente dell’Aci regionale Ruggero Campi, il generale dei Carabinieri in congedo Giuseppe Meglio, il direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria Costantino D’Orazio (intervenuto con un video-messaggio). Presenze che aiutano a comprendere le infinite declinazioni del concetto di rispetto e mettono a fuoco quello che Cristina Zenobi ama ripetere:

«Quella dedicata al rispetto è la “Giornata delle Giornate”, perché alla base di qualunque iniziativa della vita deve esserci il rispetto, che va conosciuto nella sua essenza ed insegnato alle giovani generazioni».

Già, perché uno dei prossimi traguardi dell’associazione umbra è far diventare il rispetto materia di insegnamento nelle scuole, per fare in modo che il seme germogli e la singola iniziativa diventi “rete”. Ma questa è un’altra battaglia…di sicuro ne parleremo a breve.

Il ritorno del Satiro

Il grande Nino Manfredi in una notissima pubblicità diceva che “Il caffè è un piacere e si non è bono, che piacere è”.

Ebbene la voglia di tornare a scrivere dopo un bel po’ di mesi di non voluto “Aventino” è dovuta proprio al caffè. Anzi al Gran Caffè Sassovivo. Un luogo sacro dove è nato il primo embrione del giornalismo folignate. Chi scrive ha vissuto, ventiquattrenne, quel bellissimo periodo quando nel locale da the, con i tavoli esagonali con scacchiera incorporata, c’erano lungo tutta una parete cinque cabine telefoniche insonorizzate che, all’occasione, servivano per dettare i pezzi ai giornali di allora: La Nazione, corrispondente Giuseppe Tardocchi; Il Messaggero, corrispondente Giuseppe Galligari; Il Tempo, corrispondente Nazzareno Mancini; La Notte di Milano, corrispondente Lanfranco Cesari; Il Telegrafo, corrispondente Ermanno Benedetti; Denio Fedeli, corrispondente Rai e Gilberto Scalabrini, corrispondente Ansa.

Questo è stato il primo Gotha del giornalismo locale che ha contribuito alla storia della nostra città. E il Gran Caffè Sassovivo, a parte le sfide di biliardo tra Kocis e Lu Tassu de Budino che attiravano spettatori a non finire in quella sala dove il fumo si poteva tagliare con il coltello, torna ora in forma moderna con il grande desiderio di dare a questa città uno spunto per far germogliare di nuovo la voglia di dibattito, di proposta e di crescita. E mentre siamo davanti al nuovo bancone in attesa della tazzina avvertiamo di essere in un momento particolare della vita del nostro Paese e della nostra amata Foligno.

La politica, anche al di qua del Topino, più che servizio è diventata “Strillo Continuo”, vince cioè chi ce l’ha più duro. E così la povertà è sempre più povera, la ricchezza sempre più dorata. Le campagne elettorali continueranno ad essere sempre impostate sul ‘contro’ e non sulle proposte “per” i cittadini? Intanto i pacchetti di coalizione fibrillano ogni volta che si presenta un nome che poi viene scartato. Sembra che le attuali trattative, soprattutto a sinistra, calzino alla perfezione con il ritornello della canzone di Annalisa: “Ho visto lei che presenta lui, che presenta lei , poi presenta me, mon amour, amour ma chi presenti tu e io farò una strage stasera…” .

E così il tempo passa inesorabilmente mentre il carrozzone va avanti da sé con le regine, i suoi fanti e suoi re.
Salvatore… arriva sto’ caffè?
“Ma lo voi digitale o analogioco?”

Samuele

Samuele ha 26 anni. Appassionato di filosofia, si è da poco laureato. Presta servizio in parrocchia. Chi lo conosce, ne apprezza la cura educativa che rivolge ai più piccoli: una cura che si fonda sulla carità, sul tempo donato con gratuità, sul riconoscere con attenzione i bisogni del prossimo. Samuele ama scalare le montagne. Esce in ferrata con gli amici. È un attimo. La roccia frana. Si sgretola sotto i suoi piedi. Sotto gli occhi increduli e disperati dei due amici, Samuele precipita. Muore sul colpo.

Lo sconcerto tra chi lo conosceva, è enorme. Il dolore non trova pace. Non c’è ragione per una morte del genere. Nei suoi amici, tra i giovani del paese, però, cominciano a risuonare nella mente e nel cuore domande profonde, domande importanti: il senso della vita, la fugacità del tempo, per quale progetto ogni uomo nasce ed è pensato.

Il dolore resta, non è cambiato. Negli occhi di chi ha conosciuto Samuele, però, c’è una luce nuova. Di consapevolezza. Di grazia: per averlo avuto amico, per la testimonianza che la sua vita ha lasciato, per aver imparato a dare più sapore alla propria vita dopo la sua morte, essere diventati un po’ più sapienti.
Sit tibi terra levis, Samuele. Tutto concorre al bene.

Appennino offline e la fibra resta un sogno

Sulla nostra montagna non c’è connessione veloce nonostante l’importante lavoro contro il divario digitale attuato da Open Fiber.
Senza infrastrutture e servizi lo spopolamento non si può contrastare:
da Colfiorito a Verchiano, passando per Annifo e Volperino, nelle cosiddette aree bianche ‘a fallimento di mercato’ il progresso digitale resta una promessa non mantenuta.

Puntare alla crescita di un’economia slow, alla riscoperta turistica degli Appennini anche e soprattutto attraverso il supporto ai residenti e alle imprese dei territori d’altura rappresenta un elemento cruciale per la valorizzazione e riqualificazione ambientale e paesaggistica della montagna folignate. Tuttavia, il suo ruolo fondamentale nel dibattito sulle risorse e sui progetti di sviluppo futuro è offuscato dall’insormontabile divario digitale che affligge ancora i territori marginali.
Questa disparità, tra chi ha effettivo accesso alle tecnologie della comunicazione e chi ne è escluso, limita drasticamente ogni possibile avanzamento per le comunità svantaggiate. Un esempio tangibile è Rasiglia, località turistica di fama nazionale ma completamente isolata dal punto di vista delle telecomunicazioni, siano esse telefoniche o di connessione wifi. Ogni weekend, migliaia di turisti si avvicinano abbandonando il segnale del telefonino e il contatto con il resto del mondo. In questa cornice, il concetto di digital detox assume una connotazione meno romantica, considerando i disagi che gli abitanti e i commercianti di Rasiglia affrontano quotidianamente, comprese le difficoltà nell’attivare i pagamenti elettronici via Pos.

11 MILA KM DI FIBRA MA RESTA L’ISOLAMENTO

Il 3 aprile 2019 segna l’approvazione definitiva da parte della Commissione europea del “grande progetto nazionale banda ultralarga – Aree bianche” con un costo ammissibile di 941 milioni di euro. Il Piano proponeva un intervento pubblico su scala nazionale, differenziando le “aree cd. ‘bianche’ a fallimento di mercato,” prive di investimenti da parte degli operatori privati, dalle aree cd. ‘grigie’ e ‘nere’ dotate di una o più reti in banda ultralarga.

Nel 2019, il Comune di Foligno accoglie con entusiasmo la campagna finanziata dalla Regione Umbria e l’appalto a Open Fiber, mirati a portare la fibra sui territori montani. Tuttavia quanto inizialmente annunciato come una svolta si è rivelato una rivoluzione solo sulla carta. Il 10 aprile segna l’inizio dei lavori per la costruzione di un’infrastruttura in fibra ottica in modalità FTTH (Fiber To The Home, la fibra fino a casa) nel Comune. Il progetto, presentato dal sindaco di allora, Nando Mismetti, insieme al Regional Manager di Open Fiber per l’Umbria e le Marche, Vito Magliaro, aveva l’ambizione di consentire “il collegamento in banda ultra larga di oltre 19 mila unità immobiliari attraverso una rete in fibra di 11mila chilometri.” Con un investimento totale di circa 7 milioni di euro questi lavori si presentavano cruciali per la città, già ‘connessa’, ma soprattutto destinati a rappresentare una rivoluzione per la montagna.

La palude di Colfiorito

9 FRAZIONI MONTANE COPERTE, RARISSIME LE ATTIVAZIONI

Open Fiber, in qualità di concessionario per la realizzazione della Banda Ultra Larga (BUL), ha svolto un ruolo chiave nella progettazione, costruzione e gestione dell’”infrastruttura passiva. Quest’ultima, resa disponibile a prezzi definiti da AGCOM, è stata destinata agli operatori di telecomunicazione che forniscono servizi finali a cittadini, imprese e Pubblica Amministrazione.

Gabriele Carracoy, Responsabile relazioni con i media e comunicazione per l’Italia centrale di Open Fiber, fornisce ulteriori dettagli. L’area montana di Foligno, classificata come ‘A fallimento di mercato’ e coperta dalla fibra con fondi regionali, include le frazioni di Annifo, Colfiorito, Forcatura, Arvello, Scopoli, Leggiana, Casenove, Rasiglia e Verchiano. Carracoy ha confermato il completamento dei lavori di stesura dei cavi, stimando che abbiano portato 1.143 unità immobiliari “in servizio di vendibilità”.Per verificare la copertura del servizio, è possibile consultare il sito openfiber.it: basta inserire il Comune e la via interessata nella maschera di ricerca. Tuttavia, Carracoy sottolinea che non tutte le abitazioni potrebbero rientrare automaticamente nel servizio. Al contrario, “tutte quelle censite come coperte dalla rete a banda ultra larga di Open Fiber sono raggiungibili attraverso gli ‘Operatori Partner’”, i quali sono indicati sul sito insieme alle rispettive offerte commerciali.

I RESIDENTI: “LA FIBRA C’È MA COLLEGARSI È QUASI IMPOSSIBILE”

Quindi essere tra i “fortunati” della lista non garantisce automaticamente una connessione stabile e veloce. Da una serie di interviste condotte tra gli abitanti delle montagne emerge che molti si sono trovati in difficoltà al momento della chiamata e del sopralluogo degli operatori. Un esempio è rappresentato da un residente di Verchiano, una frazione formalmente ‘connessa’ ma dove nessuno è riuscito ad accedere alla Banda Ultra Larga. Questo residente spiega: “risultando connesso alla rete, ho fatto richiesta e mi è stato detto da Eolo che c’era copertura nella mia zona. Hanno inviato un tecnico che ha effettuato le opportune verifiche, spiegandomi che la fibra era presente nella colonnina di fronte a casa mia, ma era necessario creare un ponte tra la loro colonnina e quella della Tim, l’unica ad avere i corrugati che arrivano all’interno delle abitazioni. Dopo tre mesi, durante i quali Eolo sosteneva di non aver ricevuto risposte alle sollecitazioni rivolte a Telecom per questo lavoro, mi sono stati restituiti i soldi della caparra per l’allaccio.”

Resta da comprendere il motivo per cui Telecom dovrebbe effettuare un collegamento che favorisce Open Fiber, un gestore di rete concorrente. Inevitabile chiedersi se ci siano ambiguità nelle dinamiche commerciali degli operatori di rete coinvolti nelle attivazioni.

FIBRA ‘NON PERVENUTA’ A COLFIORITO O VERCHIANO

“Mi è capitato di effettuare l’attivazione della fibra nella frazione di Sostino o a Colle di Nocera, ma mai a Verchiano – dove ero consapevole che non fosse attivabile – o a Colfiorito e nelle altre frazioni che mi hai menzionato”, afferma un tecnico qualificato di Foligno rispondendo alla domanda sulle difficoltà di attivazione per le utenze considerate coperte da Open Fiber. Spiega che le difficoltà possono emergere nel far passare i cavi dalle colonnine alle abitazioni: “un’operazione onerosa per i gestori il cui costo, nell’ordine di qualche centinaio di euro, potrebbe talvolta essere addebitato alle utenze richiedenti”. Attualmente, l’installazione di un ponte ripetitore risulta essere l’opzione più rapida e semplice, se fattibile, poiché collegare direttamente la fibra alle abitazioni richiederebbe considerevoli risorse finanziarie. Questo spiega le iniziative di Telecom, che da due anni monta antenne per la connettività wireless, e l’approccio di lunga data di Eolo in montagna con la tecnologia FWA (Fixed Wireless Access), un sistema di trasmissione dati che combina fibra ottica e frequenze radio. Una tecnologia che si dimostra l’unica soluzione per chi vive in zone non coperte dalla fibra. Nonostante le informazioni contrastanti, nessuna conclusione definitiva emerge, ma rimane la sensazione che l’ampio investimento nelle montagne per la fibra abbia finora ottenuto risultati limitati. Se collegare le abitazioni montane alle colonnine con la fibra risulta impossibile o eccessivamente costoso per i gestori, e se la soluzione più pratica è scegliere operatori wireless come Eolo che già offrono connessione senza cavi, sorge la domanda sulla coerenza dell’operazione fibra finanziata con fondi pubblici per le zone a fallimento di mercato.

Il santuario di San Salvatore a Verchiano

IL DIVARIO DIGITALE RESTA UNA SFIDA 

In conclusione, l’aspirazione a portare la fibra nelle montagne come parte di un ambizioso progetto nazionale è stata accolta con iniziale entusiasmo, promettendo connessioni veloci e stabili alle comunità rurali, alcune delle quali in Italia hanno avuto grandi benefici da questa iniziativa. Tuttavia, emergono dubbi sulla realizzazione pratica di questa promessa nella montagna di Foligno.
Le testimonianze degli abitanti, le sfide tecniche e la complessità delle dinamiche commerciali degli operatori di rete delineano un quadro contraddittorio. La presenza di “aree cd. ‘bianche’ a fallimento di mercato” sembra essere stata affrontata solo sulla carta, mentre le difficoltà nell’attivazione dei servizi rendono ancora difficile valutare il successo dell’investimento.
La preferenza per soluzioni wireless, come evidenziato dall’installazione di antenne e l’adozione della tecnologia FWA, suggerisce che, in certi contesti, connessioni senza cavi rappresentino la scelta più praticabile ed efficiente. In questo scenario, sorge la riflessione critica sulla coerenza di investire fondi pubblici in un progetto di fibra per zone a fallimento di mercato, se le soluzioni wireless sembrano essere più adatte e accessibili.

La situazione attuale lascia intravedere una disconnessione tra l’entusiasmo iniziale, la pianificazione teorica e la realtà vissuta dalle comunità montane. Affinché l’investimento sulla fibra nelle montagne raggiunga il suo pieno potenziale, potrebbe essere necessario riconsiderare le strategie implementate e adottare approcci più adatti alle sfide uniche presenti in questo territorio.

Aspettando Sanremo

Che belli erano quei Sanremo senza auto-tune. Quelli in cui si cantava davvero.
Ogni tanto i cantanti prendevano le stecche e alcuni giornalisti non aspettavano altro, per poi “steccarli” pure sul giornale. A sentirli cantare, molti, ma per fortuna non tutti, i cantanti di oggi sembra che abbiano ingoiato un palloncino di Elio. Non quello delle storie Tese, ma il gas nobile, quello che nella tavola periodica è indicato con il simbolo He.

A questo punto dell’anno, dai ricordi che ho come inviata al festival per 10 anni, nelle redazioni dei quotidiani nazionali, nei mensili, settimanali e web “ardeva l’aria”, permettetemi questa citazione Quintanara, che rende l’idea.
Ogni cosa era considerata una notizia, pure la pieguzza sulla giacca del conduttore.
Da che ho memoria Sanremo è una cosa che fa parte di noi, della nostra storia, quasi come il nostro Dna. Spesso alcuni amici inglesi, o francesi trovandosi in Italia nel periodo del festival mi hanno detto: “Ho provato a guardare il Festival ma non capisco proprio cosa ci trovate voi italiani in questa spazzatura.

E grazie tante…voi avete i Beatles, o Annie Lennox, e i francesi Edit Piaf, o George Brassens. E noi? Nonna diceva sempre che Gesù manda li panni a seconda de lu friddu, a noi ha mandato Sanremo. Si vede che ce lo meritiamo.

Comunque, a parte questo, per il Festivalone si partiva o in treno o in macchina. Del mio primo Sanremo ho una memoria nitida. Primo perché il conduttore era Mike Bongiorno. Sì signori, il grande Mike con il primo valletto della storia Piero Chiambretti e Valeria Marini. Secondo perché il viaggio in treno era durato quasi quanto una traversata dagli Appennini alle Ande. E data la lunghezza imparai a memoria tutti i nomi dei cantanti e delle canzoni, tra big e nuove proposte, per accorgermi con un sospiro di essermeli dimenticati tutti, o quasi, appena scesa dal treno.

Al di là di quello che si potrebbe pensare, ai giornalisti non è concesso andare in sala, a meno che non ci sia una sessione di prove; oppure previa una richiesta formale che vi autorizzi a sedervi sui velluti rossi (eddai, diciamolo…come una splendida cornice, i velluti rossi sono un must) dell’Ariston.

Il palco dei giornalisti è il Roof. La terrazza del teatro alla quale si accedeva, e credo tutt’oggi sia così, attraverso un ascensore stretto stretto. Che, soltanto ad arrivarci, si provava un senso di conquista misto a piacere e soddisfazione per essere riusciti a entrare all’Ariston con un pass. Tra artisti improvvisati per strada imitatori dell’ultima ora, maghi, prestigiatori e ali di ragazzine che affollavano le strade – magari perché stavano aspettando i Thake That -, Sanremo sfoderava il suo fascino. Si passava tra le transenne con assoluta fierezza, sfoggiando il pass che ti permetteva di andare là dove gli altri non potevano: solo per accorgersi, durante il tragitto, che i tuoi timpani stavano piuttosto bene, nonostante due etti di cellule uditive perdute grazie alle urla delle ragazzine che aspettano i Thake That. Dopo la prima serata, di tutte le canzoni in gara ti rimane in testa solo una strofa.

Il problema quando conosci una sola strofa è che dopo un po’ diventa ripetitiva, come nel caso di “Fiumi di Parole” che il festival lo vinse del 1997, tra fiumi di polemiche. Che però con polemiche non fa proprio rima. Ma immaginate la mia soddisfazione quando mi resi conto che, se cambiando il vocabolo parole con un altro termine, ad esempio viole, o meglio braciole, si aprivano immense possibilità: potevo creare circa 47 rime diverse: nocciole, guacamole e via dicendo, tanto per restare in un tema a me caro come quello culinario.

E comunque “Fiumi di Braciole” potrebbe essere un Hit nei rioni della Quintana. Avrei potuto liberare la mia vena creativa, entrare nel mondo dei parolieri italiani, ma mentre mi accingevo a comporre l’ennesima rima, pensai che era Febbraio, e che quella più appropriata fosse senza dubbio quella con “castagnole”. Per l’eccitazione che mi assalì abbandonai le mie velleità musicali e corsi alla prima pasticceria per mangiarne una. Insomma, quello fu un anno che tutti ricorderanno, non solo per Chiambretti vestito da angelo – che per poco non si scapicollò sul palco attaccato alle funi -; ma soprattutto per i fiumi, in questo caso non di parole ma di inchiostro, che si ebbero a dire sul come mai due perfetti sconosciuti vinsero il festival. Successe anche nel 2000, ma quella volta fummo tutti felici e la sala stampa esplose in un grido di gioia degno di un gol al 90′ nel derby romano. Perché nel 2000 a vincere furono gli Avion Travel, ma questa è un’altra storia che racconterò in seguito.

Durante tutta la sua lunga vita, il Festival di Sanremo è sempre stato l’evento più atteso dopo il binomio Natale-Capodanno e prima del Carnevale. L’evento che tutti ripudiano come i calzini dentro i sandali dei tedeschi, ma che poi tutti guardano indistintamente. Tra cene fra amici al suono di “daje, allora ognuno porta qualcosa e vedemo Sanremo!” e cenette familiari con i nonni al seguito che ci ricordano di Mino Reitano e Fred Bongusto, mentre il figlio dei Pooh canta “Bella di padella”. Certo, mi sarebbe piaciuto chiedere a mia nonna cosa pensasse di Sfera Ebbasta o di qualche altro trapper. Ma la verità, signori, è che Sanremo, anche se ha una certa età (è nato nel 1951), è sopravvissuto fino ad oggi in barba a programmi musicali di pur grande spessore.

Perché la verità è questa: il Festival ci piace. Sanremo è così: una lacrima sul viso, una terra promessa, la Terra dei cachi, un bicchiere di vino con un panino, la Felicità, un Gelato al Cioccolato, per i ricchi e per i poveri. Ci piace il Festival diciamolo pure, e piace pure a quelli che lo “schifano”. Ci piace perché è meravigliosamente privo di talento musicale (a parte qualche stella che ogni tanto brilla lontano), ci piace perché è povero di canzoni di spessore, di spettacolo; perché tutti salgono su quel palco come in una partita di scapoli-ammogliati e la palla si dirige in ogni dove. Sanremo è Sanremo. Meravigliosamente trash, e per questo meravigliosamente italiano.

Apologia di San Feliciano

San Feliciano, martire cristiano sotto l’imperatore Decio, fu incatenato ad una biga e trascinato dai cavalli al galoppo. Vescovo di Forum Flaminii ed evangelizzatore dell’Umbria, fu eletto a patrono della nostra città. Papa Leone XIII lo esortava a difendere Foligno “che nessuna arroganza e nessuna insidia dei nostri tempi folli possa mai distruggerla!”.

L’apostolo fu una pietra miliare del messaggio cristiano dei primi secoli, un cristiano in via d’estinzione. Tale e quale a quelli descritti verso la fine del II secolo da un ignoto autore di una lettera in lingua greca indirizzata al procuratore Claùdios Diognètos, pervenutaci in un solo manoscritto pubblicato nel I592 dall’umanista Henri Estienne. Ho domandato ad un principe della Chiesa incontrato (circostanza fortunata) per caso in vacanza: “Eccellenza, come si distinguono i cristiani di allora da quelli di oggi?”. ADR: “Dei primi si sono perse le tracce, non fosse altro perché non si dichiaravano come fanno i secondi, campioni di una dottrina umana”.

Ci sono rimasto di stucco, ma poi ho tirato le mie vaghe conclusioni. I primi erano di carne ma non vivevano secondo la carne. Mi piace immaginarlo così il patrono preso in prestito da San Giovanni Profiamma, come quei martiri misconosciuti, condannati e massacrati (che in tal modo acquistavano la vita). Uno che mancava di tutto e sovrabbondava di ogni cosa, così disprezzato che nell’altrui disprezzo non poté fare a meno di raggiungere la gloria. “Uno escluso per rinascere alla vita”, come ci ammaestrava durante l’ora di religione Don Angelo Lanna, se la memoria non m’inganna.

(Foto di copertina via Wikipedia)

La “Legenda” di Francesco

Uno dei principali vanti di Foligno è quello per cui “in questa piazza” (ovvero l’attuale Piazza della Repubblica) “nell’anno MCCVI” (ovvero nel 1206) “S. Francesco di Assisi compì il primo atto della sua vita evangelica vendendo le sue merci e il suo cavallo per restaurare la chiesa di San Damiano presso Assisi”, come scritto in una lapide collocata all’angolo del Palazzo delle Canoniche “nel VII centenario della morte” del Santo (presumo nel 1926), recentemente arricchita da una sottostante scultura bronzea.

Per cercare fondamento di quanto scritto nella lapide folignate che commemora cotanto evento è inevitabile rifarsi alle “Fonti Francescane”. A tale scopo, tra le molteplici reperibili in rete, ho preso in esame l’edizione 1977, Editrici Francescane, in formato PDF. In tale raccolta, tra le altre fonti biografiche minori, sono contenute quelle fondamentali, ovvero la “Vita Prima” scritta da Fra Tommaso da Celano e la “Legenda Maior” scritta da Bonaventura da Bagnoregio, canonizzato nel 1482.

È appunto nella “Legenda Maior” (capitolo II) che trova maggior riscontro quanto scritto nella lapide folignate, ferme restando le discordanze tra questa e la “Vita Prima” (capitoli IV e VI) nei fatti così come narrati. Peraltro, anche ove convergenti, le narrazioni non confermano chiaramente la compiutezza delle finalità di Francesco. Nella “Legenda Maior”, così come già nella “Vita Prima”, si narra infatti che quel denaro, ricavato “vendendo le sue merci e il suo cavallo” a Foligno, viene rifiutato dal sacerdote di San Damiano a cui Francesco lo consegna. Di quello stesso denaro, poi, una volta ritrovato, entra in possesso il padre di Francesco. Ciò lascia aperta l’ipotesi che, ai fini pratici della riparazione della chiesa, a differenza di quanto lascia intendere la scritta nella lapide, quel denaro sia stato ricavato invano.

Ci sono poi le differenze. Quella principale tra le due fonti consiste nella finalità per cui Francesco si reca a Foligno a vendere la sua merce: nella “Legenda Maior”, lo fa per ricavare il denaro necessario “per restaurare la chiesa di San Damiano”, come scritto nella lapide; nella “Vita Prima”, invece, si narra che tale intenzione si manifesta in Francesco a posteriori, mentre da Foligno fa ritorno ad Assisi, desideroso di disfarsi del denaro ricavato, e solo allorché, lungo il cammino, si imbatte nella chiesa in rovina: una inversione di causa ed effetto. Nelle “Fonti Francescane”, è presente una “cronologia” di eventi, che però non riporta tale episodio, che invece per Foligno è ritenuto così importante.

Quanto alle fonti, dalla stessa “cronologia” si apprende che la “Vita Prima” fu scritta da Fra Tommaso da Celano, su ordine di Papa Gregorio IX, nel 1228–1229, poco dopo la morte di San Francesco avvenuta nel 1226, ed approvata dallo stesso pontefice nel 1229; che la “Legenda Maior” fu scritta da Bonaventura da Bagnoregio su mandato ricevuto nel 1260 dal “capitolo generale” riunito a Narbona ed approvata a Pisa nel 1263 dal “capitolo generale”; e, infine, che nel 1266, il “capitolo generale”, riunito a Parigi, decreta la distruzione tutte le “vite” di San Francesco, ivi dunque compresa la “Vita Prima”, fatta eccezione per la “Legenda Maior” di Bonaventura da Bagnoregio, che assume così la dignità di biografia unica ed ufficiale.

Se, in linea di principio, su come siano andate realmente le cose non v’è certezza, la narrazione della lapide, se verificata con le fonti principali, che peraltro difettano di univocità, induce come minimo nel dubbio. Sta di fatto che, già ai tempi del Poverello, così come oggi, dettavano legge le versioni “ufficiali”. Passano i secoli ma l’antifona è sempre la stessa: la “Legenda” si impone sulla “Vita”.

Gattopardi sacrosanti

Può essere blasfemia o può essere devozione; o forse una nuance vagamente blasfemica o genericamente devozionale. E quindi, con ogni probabilità, non è né l’una né l’altra. Dipende dal punto di vista dell’osservatore e perciò qualcuno che si offenda si troverà di sicuro, così come qualcuno che la prenda per quello che è.

Sia quello che sia, questo giornale nasce col suo numero zero proprio il giorno di San Feliciano, nome che il mio word annibalico sottolinea ancora ignominiosamente in rosso. Certe ignoranze sono peggio della blasfemia. Però, che all’ignoranza piaccia o no, questo giornale, che esce online, esce anche con la benedizione del Patrono. O almeno io interpreto così la mano levata in atto di benedire. Che poi il Santo minacci un tre a tutta la redazione? Forse, ma omnia munda mundis; o no? Lodovico Iacobilli è tassativo: scrive che il giovane Feliciano “fuggiva le compagnie de’ cattivi”. So per certo che, quando gli hanno portato l’elenco dei redattori, Feliciano ha alzato gli occhi al cielo ed ha sospirato un sospiro di indulgenza e mite comprensione: rieccoli! Mi rassicura che, se mai dovessimo sbagliare strada, lui starà sempre lì come il padre del figlio prodigo nella tela di Rubens, con una mano da mamma e l’altra da papà.

Truppa di fanti o di santi che sia, rivendichiamo almeno una santità etimologica e fra le accezioni di dedicare o riservare, a cui comunque quel santo ci rimanda, scegliamo quella di separare. E dato che fra noi c’è qualche pedante, allora chiariamo che la radice del santo è anche quella del sacro, che sta per riservato e quindi stiamo a parte in virtù di una sanzione: terra-terra vuol dire che non stiamo da una parte né dall’altra. Siamo sacrosanti.

Fra l’altro San Feliciano è stato un gran camminatore e probabile che tanta ginnastica un ruolo l’abbia avuto a farlo arrivare nonagenario, fra Antonini e Severi. Chissà se avrà notato mai, da santo qual è stato da subito, la discesa incresciosa dell’impero da Marc’Aurelio a Caracalla, la scivolata da Eliogabalo a Gordiano fino a Decio, il persecutore. Grand’uomo Decio, unico imperatore a cadere sotto il fuoco nemico, goto se non sbaglio. E ci ha fatto una gran figura, tanto che la sua persecuzione dei cristiani è una nota leggera, al margine di una mezza paginetta di storia del tardo impero. Buon per lui, per Decio, che gli è toccato di esser fatto fuori dal nemico, piuttosto che da franchi tiratori.

E poi c’è un’altra cosa: Feliciano non sta mai fermo. Va a Spoleto e opera miracoli, va a Trevi e opera miracoli, a Spello, a Bettona, nell’ “ampio territorio di Perugia” – esulta lo Iacobilli – e opera miracoli, nella provincia della Marca, da Jesi a Pesaro, e opera miracoli. Solo in due posti è “ingiuriato battuto e discacciato”: il primo è Assisi, “città in quel tempo tutta dedita e fissa al falso culto delli dei”. In quel tempo, scrive Iacobilli, in quel tempo: noi semplicemente citiamo lo storico illustre, ritenendo quel tempo concluso ed asserendo in modo inequivocabile che gli dèi falsi e bugiardi mai e poi mai possano più riattarsi in nuove forme. Ad Assisi poi! Ubi maior etc., si sa: dov’è l’uniforme cristiano, il multiforme pagano s’estingue.

L’altro posto che ingiuria (e incarcera) Feliciano è Narni. Ma a Narni Feliciano torna col rinforzo: infatti “conduce seco San Valentino, da lui creato Vescovo di Terni”. E la vittoria è assicurata: come libera gli indemoniati ad Assisi, così Feliciano e Valentino “con più fervore si diedero all’acquisto dell’anime”. Quando si dice attenti a quei due!

Quanto a noi, anzi quanto a me – perché alle volte la presunzione di parlare per altri dev’essere vinta – spero sia chiaro che qui, al Gran Caffè Sassovivo, tutti sono accolti con un aroma di illuministica libertà. Troppo mi spiacerebbero i tempi del ghigno cagnesco e del ringhio lupesco, i tempi degli agguati e dei proscritti, certi tempi sillani, quando quelli che contavano erano tutti per forza pre-silla, pro-silla volevo dire, maledetta tastiera luciferina! (Ammetto la mia natura gattopardesca. Ce n’è un altro paio, qui, di gattopardi. Fra essere vivi ed essere morti, abbiamo scelto di essere risorti. Anche online).

Source: www.grancaffesassovivo.it